«Ascoltare musica è come mettersi in viaggio: si comincia a piedi e poi si passa all’automobile. Ma solo i grandi ti fanno prendere l’aeroplano». Così disse Mohammed accarezzando il guembrì, con il quale per due ore ci aveva fatto volare nel patio di un riad della Medina di Marrakech.
Mohammed, sposato e padre di sei figli, abita nei pressi di Bab Taghzout dove lavora come fuochista in un hammam popolare; di notte suona. È un maalem gnawa: gli gnawa sono una confraternita mistica che pratica riti esorcistico-incantatori nei quali la musica gioca un ruolo essenziale. Una confraternita di quel sufismo popolare che non ha neppure un santo eponimo; gli gnawa si pongono infatti sotto il patronato di Bilal, lo schiavo etiope che, emancipato dal califfo Abu Bakr, divenne il primo muezzin dell’Islam nascente. Patronato non casuale: infatti gli gnawa sono discendenti degli schiavi neri giunti in Marocco a partire dalla fine del Cinquecento e nelle loro melodie molto della tellurica eredità africana ritorna sincretizzata con elementi berberi, arabi, ebraici…
In piazza Jamaa el Fna a tutte le ore si possono incontrare musicisti gnawa, più o meno fasulli, che intrattengono i turisti roteando il capo con il celebre cappellino ornato di conchiglie cauri, per estorcere qualche banconota. Gli autentici maalem invece concedono raramente concerti al di fuori dei riti (la Lila) che li vedono impegnati per notti intere. Considero un privilegio aver assistito a una di queste esecuzioni perché, quantunque fosse avulsa dalla sua primaria funzione liturgica, quella notte ho «preso l’aeroplano».
Mentre Muhammed suonava il guembrì e cantava, due musicisti lo accompagnavano con i krakeb, sorta di nacchere, e un terzo percuoteva un tamburo. Una sessione musicale gnawa ha una forza ipnotica, capace di sciogliere anche il pubblico più legato e di sospingerlo sin quasi alla trance. Ben presto l’approccio distaccato di chi assiste a un concerto cede a una partecipazione sempre più coinvolgente: batto il ritmo con i piedi e con le mani, mi abbandono interamente alla danza.
Quello con Mohammed a Marrakech è stato uno dei numerosi incontri nei quali un luogo, un paesaggio, una città mi si sono svelati attraverso la musica. Perché un ascolto musicale può richiamare alla memoria con tanta forza un Paese? Il termine greco nomos ha allo stesso tempo il significato di «canto d’uccello», di «territorio» e di «legge» (norma o regola). La territorialità fissa una dimora e stabilisce una regola; per molte specie animali è sancita dal canto, quel canto che per molti popoli tradizionali è al principio della musica. Anche l’uomo partecipa al nomos, dando voce (e strumento) allo spirito del luogo. Il duduk armeno, un piccolo flauto in legno di albicocco, fa risuonare quel genius loci, come il sitar o l’arpa celtica, come il guembrì di Mohammed.
La voce umana è poi lo strumento per antonomasia di questo misterioso legame tra luogo e suono, quando modula nella lingua natia l’aria; un termine che allude contemporaneamente all’atmosfera e alla melodia, perché la musica non emana solo dalla terra ma anche dall’aria del Paese che respiriamo. Pensiamo al Cante hondo andaluso o al Fado portoghese, con la loro evocazione identitaria delle rispettive arie e aree melodiche.
Un vero viaggio è pertanto anche un viaggio nella musica del paese che attraversiamo, che ci attraversa. Nei miei carnet de voyage alcune pagine testimoniano questi incontri con musiche in viaggio. Per esempio il taccuino indiano conserva il ricordo di una sosta presso la Dargah di Nizam-ud-Din a Delhi. Dargah è la porta che dà accesso al santo, il quale a sua volta non è che porta per Allah, l’Uno. Quando vi giunsi, dopo la preghiera del venerdì, si preparava una sessione di Qawali, canti e melodie devozionali tipiche del sufismo indo-pachistano. Ai lati dell’ingresso che immette nel recinto delle tombe vidi una corte dei miracoli che faceva ala ai pellegrini: deformità, storture di corpi, gobbe, mani senza dita di lebbrosi.
Ma la memoria richiama soprattutto l’incontro con Ali Farka Touré – straordinario esponente dell’African Blues e ispiratore di artisti internazionali come Ry Cooder e Taj Mahal – a Roma nel luglio del 2005, l’anno prima che morisse a Bamako. Nel 2004 avevo già visitato il grande musicista maliano, Ali Ibrahim detto Farka, ovvero asino, il soprannome datogli dai genitori per ricordare la sua tenacia, dopo che era sopravvissuto ai fratelli morti in fasce. L’avevo incontrato a Niafunké, il paesello sulla via verso Timbuctù del quale era divenuto sindaco. Quell’estate del 2005 invece era in tournée a Roma con Toumani Diabaté, virtuoso di kora, un arpa-liuto tipica dell’Africa occidentale.
Dopo aver ascoltato il suo concerto al Parco della musica la sera prima, il giorno seguente volli vederlo nuovamente in albergo per chiedergli di scrivere l’introduzione al mio carnet sul Mali. Era in giardino, circondato dalla sua corte: mogli, figli e famigli. Vestiva un sontuoso bubu color glicine e sembrava un re nero delle Mille e una notte. Parlammo. Sfogliò con attenzione il mio carnet e commentò alcune delle pagine con finezza e perspicacia. Aveva delle mani bellissime. Concluse che bisognava dare ai miei disegni una colonna sonora e si fece portare il «violin» da una ragazza con la bocca tatuata. Era la variante Songhai di quello strumento monocorde che i Touareg chiamano imzad, il più arcaico di tutti gli strumenti a corda. Mi raccontò – ma forse mentiva – che l’unica corda era fatta con i capelli intrecciati di una sposa. O forse era la corda dell’archetto? Poi suonò un brano folle, polveroso come un mulinello di sabbia del deserto, vorticoso come il vento secco d’harmattan, lamentoso come la voce dei fantasmi di fanciulle infelici.
Non suonò a lungo. Non suonò, in verità. Fu un’evocazione. Una chiamata a raccolta di tutti i Jinn della Regina delle sabbie. Il mio libro ebbe il suo testo introduttivo, ma credo che il vero commento alle mie pagine resterà per sempre la voce cigolante e indimenticabile di quel violino...