Considerando il grande merito delle comunità religiose nella conservazione e nella diffusione della vite, cerchiamo di curiosare fra le mura dei conventi per scoprire quale destinazione aveva il vino non legato strettamente alla liturgia.
Ci siamo quindi documentati su un testo scritto dal professor Léo Moulin dell’università di Bruxelles (autore del libro La vita quotidiana secondo San Benedetto, Edizioni Jaca Book), e in particolare laddove si riferisce alle comunità Benedettine dislocate oltr’Alpi. E poiché le regole monastiche non conoscono frontiere, ma al massimo una diversa interpretazione della regola da parte dell’Abate, consideriamo valido anche per le nostre latitudini quanto egli ci racconta sulle abitudini beverecce dei monaci medioevali.
I migliori vigneti di quel periodo storico (per non dire gli unici) erano spesso vigne abbandonate o talvolta varietà nuove, nate da vinaccioli che erano germogliati spontaneamente: i monaci non svilupparono di certo innovative tecniche botaniche per creare nuovi vitigni, ma ebbero sufficiente intuito per capire e preferire quelli che si dimostravano migliori.
Queste vigne erano quasi sempre ubicate lontano dalla collettività civile e dai clamori delle battaglie, in territori spesso abbandonati, dove la pianta della vite non aveva più ricevuto le cure dell’uomo. La diffusione delle viti avveniva sia in occasione del trasferimento dei monaci, che si portavano appresso il materiale vegetale, sia per l’opera di coloro che, dovendo fondare una nuova comunità, si provvedevano di barbatelle per ricostruire l’indispensabile vigneto.
Il buon vino (oltre il suo uso sacro per celebrare la S.S. Messa) dava forza al monaco che doveva lavorare la terra, e il vino poteva altresì offrire una buona fonte economica, di certo molto superiore alle offerte in denaro che la questua in un paese di diseredati poteva offrire.
Vino significava dunque denaro sonante, ma con un suono ancor più gradevole e cristallino, se vengono considerate le esenzioni di pedaggio e gabelle concesse agli ordini religiosi. Queste concessioni generarono presto nelle comunità religiose più importanti l’idea di vendere il proprio vino in diretta concorrenza con i produttori laici, ma non solo: pensarono anche che poteva essere molto redditizio creare delle vere e proprie osterie, aperte ai passanti, all’interno delle abbazie.
Una strana forma di moderno agriturismo che non poteva certo trovare scusanti in una comunità il cui scopo principale era la cura delle anime. In alcuni rari casi, ci furono comunità che vietarono l’uso del vino all’interno del monastero, e facevano della viticoltura esclusivamente un’attività esterna legata a cospicue vendite e buoni incassi.
L’immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso, che ha lusingato la storiografia italiana alimentando a lungo il mito di San Benedetto, padre del monachesimo occidentale. In realtà, l’osservanza benedettina trovò larga diffusione in Europa a partire dall’età carolingia, per l’opera di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell’Impero a unità legislativa applicando le direttive di Carlo Magno e Ludovico il Pio.
Prima di allora, tra il IV e l’VIII secolo, numerose regole circolarono nell’Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi.
Si vuole che sia stato proprio San Benedetto, nato a Norcia nel 480 (fondatore dell’abbazia di Cassino 529), ad ammettere il consumo del vino quotidiano da parte dei monaci che, non dimentichiamo, dovevano alternare il lavoro alla preghiera (De mensura potus).
Inoltre vi erano molte buone ragioni perché il vino entrasse di buon diritto nei refettori dei monaci. Potevano essere ragioni legate al clima o alla scarsità d’acqua potabile, oppure ancora alla mancanza quasi totale di frutta e ortaggi (questi ultimi scarsi o quasi assenti in quei tempi). Un’altra buona ragione era la fatica fisica, che traeva dal fruttosio e dall’alcol presenti nel vino, uno stimolo e un buon corroborante.
San Benedetto concedeva un’emina giornaliera, ma i pareri sul quantitativo corrispondente all’emina sono discordi.
L’emina romana, corrispondeva a un quarto di litro, mentre quella mercantile valeva esattamente il doppio. A sedare le discordie interviene uno storico francese, il Castelnau che ci fornisce una dose da capogiro: 1132 litri l’anno per ciascun membro della comunità! Ma le regole come abbiamo visto, variavano da monastero a monastero, certamente anche in considerazione del rispetto che il vino godeva nel pensiero dell’abate. Quindi si poteva passare da un litro al giorno a una media di 2-3 litri: resta solo da chiarire la qualità del vino somministrato, poiché essa era condizionata dalla quantità prodotta e quindi suscettibile di tagli con acqua, sempre più abbondante quando calava la produzione e cresceva il numero dei convitati.
Vi erano di certo dosi vincolate all’età e al grado gerarchico, per cui il giovane o il semplice monaco, quando avvicinavano la loro povera ciotola di legno al dispensiere, erano ben lontani dall’ottenere stesse qualità e quantità versate nella coppa dell’Abate. Un discorso a parte merita il vino liturgico, cioè quel vino che, per essere consacrato sull’altare, deve rispettare tutte le norme ecclesiastiche, primum l’essere non corruptos.
Se oggi la corruzione viene ricercata nell’aggiunta di sostanze «chimiche» o correttive, in passato essa si basava unicamente su due punti: anzitutto doveva provenire da mosto di sole uve, in secondo luogo non doveva aver subito alterazioni tali da compromettere la qualità, quali acescenza, muffe o sabotaggi. Esisteva infatti anche il sabotaggio, effettuato per lo più, immettendo delle cipolle crude nella botte.
Se vogliamo comunque tener conto delle gerarchie, possiamo concludere affermando che la vita, il cibo e il vino dei monaci medioevali non erano certo gran cosa.