La storia del vino e della viticoltura, così come la storia del mondo, ha vissuto un importante giro di boa in coincidenza con la scoperta dell’America. Le esplorazioni spagnole e portoghesi del XV e XVI secolo rivelarono l’esistenza di nuove terre al di là dell’oceano Atlantico.
Il periodo storico che va dal 1500 al 1700 non fu solo una fase di grandi scoperte geografiche, ma anche un periodo di innovazioni sia tecniche sia sociali atte a trasformare la struttura economica di vari paesi. Vi fu una notevole espansione dell’economia produttiva e grossi innovazioni nelle pratiche d’agricoltura che permisero il sostentamento di popolazioni sempre più numerose.
Anche la vite e la viticoltura subirono dei cambiamenti, furono infatti piantati vigneti in regioni lontane da quelle originali; si crearono nuovi vitigni con innesti vari e cambiarono anche i metodi di vinificazione, creando così una nuova tipologia di vini molto più vicina a quella dei nostri giorni.
Furono certamente le spedizioni navali che salpavano dai porti spagnoli e portoghesi a fornire il mezzo di trasporto della vitis vinifera europea, che fu impiantata per la prima volta nell’emisfero sud.
Tutto ciò, portò a una lotta d’interessi fra Portogallo e Castiglia, che poté essere risolto solo con il Trattato di Tordesillas, concluso tra i sovrani cattolici di Spagna, Ferdinando e Isabella, e il re del Portogallo Giovanni II, il 7 giugno del 1494. Arbitro della questione fu papa Alessandro VI (1431-1503), il famoso papa Borgia, padre dell’ancor più famosa Lucrezia. Il confine fu stabilito lungo il meridiano che corre 370 leghe a ovest di Capo Verde: le terre a est sarebbero appartenute al Portogallo, quelle a ovest alla Spagna.
Non si è proprio certi, ma sembra che fu Cristoforo Colombo in persona a portare in dono alla regina Isabella uve e barbatelle di viti indigene americane, trovate nell’area caraibica, in modo particolare a Cuba. L’uva americana sarebbe quindi sbarcata per la prima volta in Europa nel 1498, in occasione del terzo viaggio del famoso navigatore.
Tuttavia sembra che la vite proveniente dal nuovo mondo non sia stata presa molto in considerazione, visto che se ne è perduta la memoria. Sappiamo invece di certo che nel 1524, non esisteva più l’impero azteco; Cortés con le sue campagne (1519-1521) aveva diviso la popolazione del Messico centrale in encomenda. Gli encomenderos, tutti i suoi compagni di conquista, avevano l’obbligo di convertire (con ogni mezzo) al cristianesimo e al vassallaggio del re di Spagna tutti gli indios. Tra le ordinanze municipali della nuova Città del Messico, promulgate nel 1524, è curioso scoprire un documento inerente la viticoltura che dice: «Per ogni concessione di terra equivalente a cento indiani, dai proprietari di quelle tenute devono essere piantate mille viti delle migliori qualità».
Nell’Historia de los indios de nueva España (1536) uno dei primi missionari spagnoli, frate Toribio de Benavente (Benevento), più noto come Motolinia, scrisse a proposito della vite indigena che cresceva in loco: «In molte zone sulle montagne, ci sono grandi viti selvatiche e nessuno sa chi le abbia piantate. Vi crescono tralci molto lunghi, pieni di grappoli. Alcuni spagnoli li hanno usati per fare aceto, altri per fare vino, ma in piccolissime quantità».
I nativi bevevano il pulque, ottenuto dall’agave, il tesgüino, una specie di birra ottenuta dal mais e il balché una specie di idromele. Motolinia accennò anche a un vino locale chiamato manguey e a un dio del vino molto temuto perché portava all’abitudine di ubriacarsi, Ometochtli.
Il non voler celebrare la Santa Messa con un vino prodotto da uve usate dai pagani per i loro riti, indusse i frati a far arrivare dalla Spagna, per essere coltivato, il vitigno Criolla, meglio conosciuto come: uva della missione. Sempre Motolinia osservò che quelle viti provenienti dall’Europa seccavano in fretta, a causa di minuscoli insetti che attaccavano le piante, ma quello che fu più strano era che anche le viti indigene venivano prese d’assalto da questi piccolissimi afidi senza però subire danni.
Era forse la filossera? Quell’afide che tre secoli dopo devasterà le vigne di tutta Europa? Motolinia non lo dice, sottolinea solo come i frati abbiano insegnato agli indigeni la tecnica dell’innesto sugli alberi da frutta. È forse possibile che abbiano sperimentato questa tecnica anche sulle piante di vite europea per innestarle su piede indigeno, ma di questo Motolinia non fa cenno alcuno.
Non è facile venire a capo di questo piccolo enigma storico-enologico, ma resta comunque il fatto che il concorso indetto dall’imperatore Carlo V (1519-1596), il monarca sul cui dominio (come lui stesso afferma) il sole non tramontava mai, fece molto scalpore all’epoca e venne vinto da Francisco Cervantes de Toledo che trapiantò la vite europea nella regione del Rio de la Plata con ottimi risultati.
Per capire l’iniziativa di Carlo V è necessario considerare che il viaggio dalla Spagna alle Americhe richiedeva dai due ai tre mesi di viaggio, con tra l’altro deleterie conseguenze sul vino europeo che arrivava regolarmente avariato e acidificato. Per cui non poteva essere utilizzato per celebrare la Santa Messa. Per questa ragione, sollecitato dai religiosi, l’imperatore aveva incoraggiato il famoso concorso. Con il successo di Cervantes, cominciò la diffusione della viticoltura nell’America Latina. Pizarro (1531-1534) conquistò il Perù, Quesada (1535-1538) la Colombia, il Cile fu conquistato da Valdivia tra il 1540-1545, e da lì un sacerdote gesuita, di cui purtroppo non si conosce il nome, attraversò le Ande con alcune barbatelle e giunse in quella terra che sarebbe diventata un giorno l’Argentina.
Circa tre secoli più tardi, la vite emigrata dall’Europa sarebbe ritornata nel continente d’origine, contribuendo a salvare le nostre vigne e superare una drammatica crisi, ma di ciò parleremo più in là.