Una delle accuse che in molti, amici e non, mi fanno è quella di uno sfrenato eclettismo culinario, di non avere delle solide basi legate a un territorio o simili. E, sia chiaro, è un’accusa giustificatissima! Perché è proprio così: è vero. Parliamone un po’.
Premessa: anni fa ho scritto anche questi due postulati sul mio eclettismo. Il primo postulato di Bay dice: i piatti sono i mattoni del mondo, più piatti conosci, più è grande la tua casa, se ne perdi qualcuno, è come una crepa nel muro della tua stessa costruzione.
Il secondo dice: non chiedere mai quale piatto ti stanno preparando, è sempre un tuo piatto, il cuoco può essere più o meno bravo, e gli ingredienti utilizzati più o meno buoni, ma è sempre un tuo piatto.
Un postulato, come è noto, è sempre valido ma non si può dimostrare. In questo senso devo onestamente riconoscere che un vecchio e amato amico che di nome e cognome fa John Donne mi ha dato un notevole aiuto nella formulazione del postulato. Ciò che mi ispirò di lui fu ciò che scrisse nel Seicento, cioè la sua meravigliosa poesia Per chi suona la campana, dalla quale Hemingway trasse il titolo di un suo celebre libro. Andate a cercarla, è «La» poesia più bella di sempre.
Torniamo a noi. Non ho mai sofferto di sciovinismo culinario (e non solo culinario): è la cosa in assoluto più estranea al mio sentire che ci sia. E man mano che la mia passione per la cucina negli anni cresceva, oltre a imparare a cucinare e a raccogliere ricette italiane incominciai a raccogliere ricette, spunti, libri e quant’altro della cucina degli altri.
Da subito, da sempre e per sempre convinto che i piatti si dividano in ben eseguiti e mal eseguiti, e che tutto il resto, il Nostro Territorio, la Nostra Tradizione, i Piatti della Nonna e via dicendo siano concetti assurdi. Conta solo il talento di un cuoco e la bontà delle materie prime. Fra una mediocre pasta o risotto e una buona zuppa di montone mongola (è un piatto che amo molto) non ho mai avuto dubbi.
Anni di viaggi, per lavoro e per piacere, sempre a caccia di buoni ristoranti, sempre curioso, hanno fatto il resto. Certo, viaggi non sistematici, la mia conoscenza delle altrui cucine è inevitabilmente casuale, a macchia di leopardo. Per questo motivo ho sempre utilizzato un bellissimo termine, «scorribande», che come dicono i dizionari sono una breve e rapida incursione in territori altrui – una definizione perfetta, dato che ho, sì, viaggiato tanto ma ho sempre abitato a Milano.
Inevitabilmente conosco l’Europa meglio degli altri continenti. Amo l’Asia e il mondo arabo e per anni mi sono spinto in quelle lande. Sono andato molto spesso in Africa e negli Stati Uniti e ho lavorato per sei mesi in Giappone. Non sono mai stato in America Latina – mi dispiace, ma capita – per cui la mia conoscenza di quella cucina me la sono fatta in Europa e negli Stati Uniti, ed è pertanto inevitabilmente parziale.
L’origine di tutto questo fu la mia prima grande cena che consumai con gusto. Mi trovavo a Londra, da Simpson’s: avevo sette anni, la ricordo ancora perfettamente. E oggi il risultato delle mie incursioni è sintetizzato nel postulato al quale ho dato il mio nome.
Una nota finale: non sono obiettivo, per nulla. Vivo di passioni per la buona cucina, per cui alcune cose, non so perché, le amo di più, altre non mi piacciono, senza motivi apparenti. E per quello che amo sono capacissimo di chiudere, a volte, non sempre, qualche occhio, ma questo è terribilmente umano, di più, chiunque scrive lo fa.