Un nuovo termine si aggira nel mondo della cucina: food design. Molti lo citano, molti ne hanno paura, molti non sanno proprio cosa sia. Vediamo di capire che cos’è.
Sostanzialmente vuol dire tre cose: 1. modificare colore, texture, ecc degli alimenti; 2. abbinarli in maniera nuova e creativa; 3. posizionarli nel piatto in maniera «bella», concetto meno personale e astratto di quanto sembri, nel senso che deve piacere al target di pubblico per il quale un ristorante lavora.
Tutti i reazionari della cucina odiano il termine food design e questo approccio alla cucina. Sono vittime di una diffusa sindrome che dice che più il piatto è pieno, meglio è, sindrome causata dalla storica povertà che ci portiamo dietro, anche se la fame, per fortuna, è finita: oggi il problema è il sovrappeso dilagante. E ovviamente se riempi un piatto in modo più che abbondante di cibo comfort, quello che tutti amano (diciamo pasta al pomodoro o risotto giallo), come sistemarlo nel piatto è l’ultimo dei problemi…
Io il termine non lo odio, per nulla. Ma per un particolare motivo: che si è sempre fatto così, da millenni. La cucina in prima battuta è stata rendere commestibili ingredienti che di loro non lo erano, di farina o di patata cruda non si sa che fare; in seconda battuta, si è prodigata per sanificare, ché il cibo con i suoi germi e parassiti è sempre stato un grande killer (e solo il molto caldo li ammazzava). Fin da subito è stata, però, anche la ricerca del buono: abbinare gli ingredienti in modo piacevole.
Dal canto loro i cuochi hanno capito altrettanto velocemente che non si mangia solo con gusto e olfatto, ma anche con gli occhi (e peraltro col tatto e l’udito…) quindi con tutti i sensi integrati e che un piatto «bello» diventava automaticamente, o comunque più facilmente, «buono». E quindi via col food design, anche se ancora non lo chiamavano così.
Gli esempi sono infiniti, dai banchetti rituali egizi e dell’antica Cina ad Ateneo di Naucrati, guru greco dell’arte del banchetto, da Marco Gavio Apicio, guru romano, a Martino da Como, ticinese padre della cucina italiana, che metteva bambagia nel becco dei volatili cotti, la inzuppava di alcoli e le dava fuoco: più food design di così non si può.
E pure un merito a quegli ignoti cuochi piemontesi che ebbero la bizzarra idea di nappare vitello freddo con una salsa a base di tonno: et voilà il vitel tonné. Come i loro connazionali, altrettanto ignoti, napoletani che ebbero la bizzarra idea di condire la pasta secca cotta con una curiosa pianta americana che molti ritenevano tossica, il pomodoro.
E avanti tutta con il food design! A sdoganarlo negli ultimi anni sono stati i pasticceri e molti l’hanno fatto anche con l’aiuto di artisti del bello, pittori ma anche architetti: di nuovo nulla di nuovo, il sommo Marie-Antoine Carême diceva che la pasticceria è un ramo dell’architettura. E poi tutti i cuochi, soprattutto quelli ambiziosi e innovativi, sanno che sistemare su un piatto una pietanza composita, fatta con tanti ingredienti, non è certo facile.
Ciononostante, le nuove idee sono nate sempre nel rispetto di una regola assoluta: la cucina non è arte, che a sua volta non è riproducibile per definizione, ma è artigianato, riproducibile per definizione. Alto, medio o anche basso ma sempre artigianato. E poi artigianato che deve funzionare, ovvero i clienti devi intercettarli tutti i giorni altrimenti fallisci. La vera grandezza di un cuoco sta proprio nell’intercettare quello che i suoi clienti vogliono: con la gola e con gli occhi.