Csf (Come si fa)

(pxhere.com)

Curioso il destino del gulasch. Tutti sappiamo che è uno dei piatti nazionali austriaci, che peraltro non negano l’origine ungherese della pietanza. Tuttavia, in Ungheria il piatto che in Austria si chiama gulasch si chiama pörkölt, mentre il gulyàs, così è giusto traslitterarlo, in terra magiara è una densa zuppona… La cucina è zeppa di nomi strani, uno ispirato ad altri ma poi sviluppatosi e cambiato per conto suo: ma un pasticcio semantico come questo sembra quasi impossibile.

Vediamo comunque come si fa il pörkölt alias gulasch. La ricetta me l’ha data un’amica ungherese che fa la ristoratrice a Milano. Si chiama Tunde Pecsvari, è nata a Balatonfüred, di famiglia tedesco-ungherese: il nonno che di cognome faceva Persching fu «convinto» nel 1945 e cambiare cognome, il perché è ovvio; fra quelli proposti scelse Pecsvari, che più ungherese non si può. È approdata per caso e per destino in Italia, oggi possiede tre ristoranti di successo a Milano: uno tosco-italiano, uno fusion asiatico e uno giapponese, quindi nessuno dei tre ungherese!

Pörkölt: la ricetta

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di polpa di manzo, 400 g di patate, 500 g di cipolle dorate, 4 pomodori, cumino, paprika dolce, brodo di manzo, olio di semi di girasole, sale e pepe.

Fate appassire le cipolle sbucciate e tagliate a cubetti in poco olio, mescolando per evitare che scuriscano. Togliete la cipolla dal fuoco, aggiungete ancora poco olio e fate rosolare per 5 minuti la carne tagliata a dadi di 4 cm per 4 cm. Unite la cipolla, 2 dl di brodo di manzo, i pomodori sbollentati, pelati, privati dei semi e tritati grossolanamente e 1 cucchiaio di cumino. Cuocete coperto a fuoco dolcissimo per 2 ore circa unendo poco brodo bollente se asciugasse troppo. Aggiungete le patate sbucciate e tagliate a dadoni e completate la cottura per 30’. Spolverizzate con 2 cucchiai di paprika e mescolate per 1’. Regolate di sale e di pepe e servite.


Forma, bellezza e creatività

Gastronomia - Si fa strada nel mondo della cucina un «finto nuovo» approccio: il food design
/ 02.01.2018
di Allan Bay

Un nuovo termine si aggira nel mondo della cucina: food design. Molti lo citano, molti ne hanno paura, molti non sanno proprio cosa sia. Vediamo di capire che cos’è.

Sostanzialmente vuol dire tre cose: 1. modificare colore, texture, ecc degli alimenti; 2. abbinarli in maniera nuova e creativa; 3. posizionarli nel piatto in maniera «bella», concetto meno personale e astratto di quanto sembri, nel senso che deve piacere al target di pubblico per il quale un ristorante lavora.

Tutti i reazionari della cucina odiano il termine food design e questo approccio alla cucina. Sono vittime di una diffusa sindrome che dice che più il piatto è pieno, meglio è, sindrome causata dalla storica povertà che ci portiamo dietro, anche se la fame, per fortuna, è finita: oggi il problema è il sovrappeso dilagante. E ovviamente se riempi un piatto in modo più che abbondante di cibo comfort, quello che tutti amano (diciamo pasta al pomodoro o risotto giallo), come sistemarlo nel piatto è l’ultimo dei problemi…

Io il termine non lo odio, per nulla. Ma per un particolare motivo: che si è sempre fatto così, da millenni. La cucina in prima battuta è stata rendere commestibili ingredienti che di loro non lo erano, di farina o di patata cruda non si sa che fare; in seconda battuta, si è prodigata per sanificare, ché il cibo con i suoi germi e parassiti è sempre stato un grande killer (e solo il molto caldo li ammazzava). Fin da subito è stata, però, anche la ricerca del buono: abbinare gli ingredienti in modo piacevole.

Dal canto loro i cuochi hanno capito altrettanto velocemente che non si mangia solo con gusto e olfatto, ma anche con gli occhi (e peraltro col tatto e l’udito…) quindi con tutti i sensi integrati e che un piatto «bello» diventava automaticamente, o comunque più facilmente, «buono». E quindi via col food design, anche se ancora non lo chiamavano così.

Gli esempi sono infiniti, dai banchetti rituali egizi e dell’antica Cina ad Ateneo di Naucrati, guru greco dell’arte del banchetto, da Marco Gavio Apicio, guru romano, a Martino da Como, ticinese padre della cucina italiana, che metteva bambagia nel becco dei volatili cotti, la inzuppava di alcoli e le dava fuoco: più food design di così non si può.

E pure un merito a quegli ignoti cuochi piemontesi che ebbero la bizzarra idea di nappare vitello freddo con una salsa a base di tonno: et voilà il vitel tonné. Come i loro connazionali, altrettanto ignoti, napoletani che ebbero la bizzarra idea di condire la pasta secca cotta con una curiosa pianta americana che molti ritenevano tossica, il pomodoro.

E avanti tutta con il food design! A sdoganarlo negli ultimi anni sono stati i pasticceri e molti l’hanno fatto anche con l’aiuto di artisti del bello, pittori ma anche architetti: di nuovo nulla di nuovo, il sommo Marie-Antoine Carême diceva che la pasticceria è un ramo dell’architettura. E poi tutti i cuochi, soprattutto quelli ambiziosi e innovativi, sanno che sistemare su un piatto una pietanza composita, fatta con tanti ingredienti, non è certo facile.

Ciononostante, le nuove idee sono nate sempre nel rispetto di una regola assoluta: la cucina non è arte, che a sua volta non è riproducibile per definizione, ma è artigianato, riproducibile per definizione. Alto, medio o anche basso ma sempre artigianato. E poi artigianato che deve funzionare, ovvero i clienti devi intercettarli tutti i giorni altrimenti fallisci. La vera grandezza di un cuoco sta proprio nell’intercettare quello che i suoi clienti vogliono: con la gola e con gli occhi.