Minangkabau in costumi tradizionali a Bukittinggi, Sumatra
Tomba Batak, presso il Lago Toba, Batak, Sumatra

Da cannibali a surfisti

Viaggiatori D’Occidente - Sud-est asiatico: in viaggio lungo la Trans-Sumatran Highway della sesta isola più estesa del pianeta
/ 27.08.2018
di Marco Moretti, testo e foto

A Sumatra, la sesta isola più estesa del pianeta, arrivano sì e no un migliaio di viaggiatori al mese. Eppure è grande come la Francia e si trova in una regione – il Sud-est asiatico – battuta da diverse decine di milioni di turisti l’anno, con etnie singolari e una sontuosa natura selvaggia… Hanno influito le restrittive politiche indonesiane sui visti, pene pesanti per le droghe leggere e il fondamentalismo islamico di Aceh, regione provata anche dallo tsunami del 2004.

Sumatra è tagliata dalla catena dei monti Bukit Barisan: corre lungo la costa ovest con un centinaio di vulcani (trentacinque attivi) fino ai 3805 metri del Kerinci. Un paesaggio corrugato servito dalla Trans-Sumatran Highway, strada ripida e stretta che in 2508 chilometri collega Banda Aceh alla punta sud, tra monti foderati di foreste pluviali e felci arboree. Si viaggia in media a trenta o quaranta chilometri l’ora.

Al largo di Banda Aceh c’è Pulau Weh, un’isoletta circondata da fondali corallini, meta di pochi appassionati di snorkeling e immersioni. Dimenticate lo stereotipo dell’integralismo musulmano: a Pulau Weh servono birra e le ragazze fanno il bagno in bikini. E, come in gran parte di Sumatra, i prezzi delle guesthouse sono tra i più bassi del mondo, a partire da quattro franchi a notte per una camera doppia.

Via Trans-Sumatran Highway arrivo al Gunung Leuser National Park, dove cinquemila oranghi vivono in libertà. Il villaggio di Bukit Lawang, all’estremità sud del parco, è il luogo dov’è più facile vederli durante i trekking nella giungla. Un fiume impetuoso divide il villaggio dalla selva, sul sentiero che lo costeggia si vedono varani d’acqua, serpenti, scimmie di Thomas e orchidee. In una spartana guesthouse incontro Francine Neago, vulcanica quanto controversa primatologa francese che studia questi animali da cinquant’anni anni. 

Francine ha contribuito a fondare questo santuario e nel 1977 è rimasta per sei mesi chiusa in una gabbia con diciotto oranghi per studiarne il comportamento e il linguaggio. Francine è una pasionaria con una vena di follia, racconta a tutti quelli che incontra i suoi esperimenti, a volte contestati a livello scientifico. A ottantotto anni cammina con grande fatica eppure fa progetti di lungo termine.

Da Bukit Lawang in poche ore raggiungo Berestagi, la base per salire sui vulcani: sul facile Sibayak (2094 m) e sul più impegnativo Sinabung (2450 m). Da qui in quattro o cinque ore arrivo al Donau Toba, un supervulcano spento a Novecento metri di quota, con un cratere lungo cento chilometri per trenta, il maggiore lago vulcanico del pianeta. 

Negli anni Settanta e Ottanta Tuk Tuk, il villaggio sull’isola al centro del lago, era frequentato dai viaggiatori quanto Bali. Gli hippy prima e i backpacker dopo si fermavano per mesi, attratti da acque blu, clima mite e la musica dei Batak, virtuosi suonatori di chitarra, abbinata a gong, violino a due corde e una sorta di xilofono. Oggi ci sono più guesthouse che turisti. I Batak sono originari del nord della Thailandia e hanno vissuto per secoli in isolamento, praticando il cannibalismo rituale. Animisti e guerrieri, stretti tra i musulmani di Aceh e quelli di Bukittinggi, resistettero per secoli all’Islam, per poi convertirsi nell’Ottocento al Cristianesimo in forme sincretiche, protestanti o cattoliche: sovrappongono il nostro Dio a Ompung, la loro divinità creatrice e (come indù e buddisti) considerano sacro il ficus baniano. Socievoli e ospitali, costruiscono monumentali tombe con sculture, ossari e tetti arcuati, come le loro tradizionali case in legno.

Il viaggio di cinquecento chilometri dal lago Toba a Bukittinggi è il più duro. La Trans-Sumatran Highway attraversa un’area d’alta montagna coperta di giungla e poco abitata. Compro un biglietto del mezzo migliore, il bus Executive a/c Toilet. I sedili sono comodi, il bagno impraticabile. Viaggiamo per sedici ore con la musica a tutto volume, giorno e notte, perché l’autista non s’addormenti. Gli indonesiani fumano una sigaretta dopo l’altra, non ho mai visto accendere tante sigarette e kretek (tabacco mescolato a chiodi di garofano) come a Sumatra. Qui non ci sono divieti, si fuma ovunque, in ristoranti e mezzi di trasporto; il fumo è un collante sociale, l’omaggio offerto anche sulle tombe degli antenati, un mezzo di pagamento. 

Passiamo l’equatore tra le risaie terrazzate di Bonjol prima d’arrivare a Bukittinggi, il principale centro dell’etnia Minangkabau. È una città ricca e moderna: qui sono nati molti leader indonesiani e s’è costituito il primo governo indipendente. I Minangkabau sono eredi di un’antica società matriarcale convertita alla fede più maschilista: l’Islam. Pretendono di essere discendenti dai Macedoni di Alessandro Magno ma, secondo gli antropologi, sono solo un’altra etnia Malay approdata qui nel 2000 a.C. Minangkabau significa «fiume e bufalo». E forma di corna di bufalo hanno i tetti delle loro spettacolari case in legno intarsiato.

Tra piantagioni di caffè, cacao, riso, avocado, betel e cannella, visito Silinduang Bulan e Belimbing, dove ci sono i migliori esempi d’architettura Minangkabau: il palazzo del re, quello della regina, le lunghe case collettive e alcuni magnifici esempi di dimore private. A est c’è invece la Harau Valley, chiusa tra le pareti d’un canyon pieno di cascate.

Da Bukittinggi s’arriva in fretta a Padang, la capitale gastronomica del Paese, dove per tradizione il pasto è servito con tutte le portate sul tavolo. Padang è la base per visitare le isole Mentawai, dove vive una delle popolazioni più primitive di Sumatra: animisti che adoravano gli spiriti, convivevano coi fantasmi dei lori avi, non si tagliavano i capelli, si tatuavano il corpo e limavano i denti in forme aguzze. Tutti costumi repressi dal governo di Giacarta, ma ancora perpetuati dalle tribù più isolate, mentre la maggioranza dei Mentawaian s’è modernizzata e convertita al Cristianesimo. 

Da qualche tempo Siberut, la principale delle isole Mentawai, grazie alle sue gigantesche onde è diventata una meta per i surfer: è l’ultima immagine di un viaggio ricco di contrasti.