Bussole

Quanto si sa di un Paese?

Bussole Inviti a letture per viaggiare

«C’è l’Islanda dei vichinghi e delle saghe, della natura incontaminata, delle canzoni di Björk. L’Islanda degli elfi, delle piscine geotermiche e delle foto dei ghiacciai sulle bacheche degli amici in vacanza. Ormai sappiamo tutto e abbiamo visto tutto. Ma è davvero così?…» 

A giugno Iperborea ha lanciato la nuova collana «The Passenger», un libro-magazine dedicato ogni volta a un Paese diverso: si comincia con l’Islanda, seguiranno Olanda, Giappone, Norvegia. «The Passenger» non è una guida turistica, piuttosto un tentativo di raccontare un Paese in modo approfondito con reportage, inchieste, racconti, infografiche, fotografie originali ecc. sfatando stereotipi e leggende. 

L’Islanda è un ottimo laboratorio per testare la nuova formula. Dopo la spaventosa crisi bancaria del 2008 il numero di turisti giunti in soccorso dell’economia nazionale è cresciuto a dismisura, con l’inevitabile corredo di domande inquietanti: «A che ora accendono l’aurora boreale?». 

Pagina dopo pagina, in un tono leggero ma informato, imparerete parecchio. È vero che gli islandesi hanno bisogno di un’App per non finire a letto con un parente? Risposta: no, anche se il rischio è di uno su mille, insomma improbabile ma non impossibile. Farete poi la conoscenza dell’edredone, un uccello migratore le cui meravigliose piume finiscono in piumini di lusso. E ancora, nonostante gli impianti geotermici e le centrali idroelettriche, l’Islanda consuma enormi quantità di energia, per esempio nella produzione dell’alluminio, e ha più di un problema ambientale. Una lingua purissima, con sette termini diversi per descrivere la neve, è messa a rischio dalla diffusione dell’inglese. La musica pop islandese piace all’estero e nonostante il clima, il calcio è una passione diffusa (da qui la buona prestazione nell’ultimo mondiale). Infine leggerete storie solo apparentemente stravaganti, come quella dell’ex sindaco punk di Reykjavík, Jón Gnarr, eletto per provocazione e rivelatosi un ottimo politico. 

Bibliografia

«The Passengers», Islanda, Iperborea, 2018, pp.176, € 18,90.


Chi vuole essere milionario?

Viaggiatori d’Occidente - In viaggio è lecito approfittare delle difficoltà di un Paese povero?
/ 20.08.2018
di Claudio Visentin

Mai stati in Venezuela? Da qualche tempo il Paese sudamericano se la passa davvero male. La crisi è cominciata nel 2013, tra le cause: un’economia troppo dipendente dal petrolio, disponibile in abbondanza nel sottosuolo. Quando però il prezzo ha cominciato a scendere, sono finiti i soldi facili e dall’economia il malessere si è rapidamente esteso alle istituzioni. Nonostante la recente rielezione (con elevato astensionismo e accuse di brogli), il presidente Nicolás Maduro è accusato di corruzione e incapacità. 

L’intera società è allo stremo, i negozi sono vuoti, chi può fugge all’estero. Come d’abitudine, l’indicatore più evidente della crisi è un’inflazione alle stelle: secondo il Fondo Monetario Internazionale entro la fine dell’anno il tasso d’inflazione in Venezuela potrebbe salire a 1’000’000%; e già ora con uno stipendio minimo mensile di cinque milioni e duecentomila bolívar, pari a 1,30 euro, non si compra neppure una pizza. 

Siamo al livello della Repubblica di Weimar nel 1923. Per inciso la Repubblica di Weimar – trasgressiva, dinamica, creativa – fu molto amata dai viaggiatori europei. Purtroppo la fuga all’estero di molti intellettuali ha ridotto la vivacità della vita culturale venezuelana, ma il Paese ha comunque diverse attrazioni famose: le cascate più alte del mondo (Salto del Ángel), la costa caraibica, i parchi nazionali…

Perché allora non approfittare della crisi per visitare il Venezuela? Certo bisogna mettere in conto qualche preoccupazione di sicurezza – il Ministero degli affari esteri inglesi sconsiglia il viaggio e anche il nostro Dipartimento federale degli affari esteri raccomanda grande cautela – ma in compenso, con pochi soldi si può vivere come un re, come ha scoperto tra gli altri lo scrittore di viaggio inglese Simon Parker. Taxi senza limiti, guide personali, visite esclusive, cene di lusso, cos’altro potremmo desiderare?

Tra un drink e l’altro però Simon Parker ha cominciato a farsi scrupoli: è giusto approfittare di un Paese in difficoltà? Va detto che le stesse autorità venezuelane spalancano le porte: «Il  turismo è un petrolio che non finirà mai» ha twittato il nuovo ministro del turismo Marleny Contreras verso la metà di giugno, confidando negli effetti benefici per l’economia di sempre nuovi arrivi. 

Ma i politici che ora invitano i turisti internazionali non sono in larga parte gli stessi responsabili della crisi? E in un contesto tanto deteriorato il turismo può davvero cambiare qualcosa?

Ogni giorno porta nuovi dilemmi: viaggiare nei Paesi dove la vita costa meno è una pratica abituale per ogni expat che si rispetti, ma dove passa il confine tra una condotta lecita, discutibile o decisamente sbagliata? Per esempio in Venezuela il cambio è straordinariamente favorevole al visitatore, ogni ora di più. Ma la quantità di banconote che si possono ottenere aumenta di centinaia di volte al mercato nero, perché solo con valute estere i locali possono procurarsi beni introvabili, a cominciare dalle indispensabili medicine o semplicemente il cibo. 

Se cambiamo al mercato nero stiamo aiutando i venezuelani o stiamo semplicemente ricavando un vantaggio dalle loro disgrazie? E poi, anche se il cambio al mercato nero potrebbe essere utile a qualcuno, di certo su larga scala diminuisce la fiducia internazionale nella valuta venezuelana.

Forse potremmo anche superare di slancio queste minute distinzioni. Dopo tutto partiamo soprattutto per sperimentare esistenze diverse e condividere la vita dei locali; per questo andare in un Paese povero per vivere da ricchi è quasi un controsenso.

Gli stessi dilemmi si ripropongono quando la nostra destinazione è abitualmente povera e non, come nel caso del Venezuela, per eventi eccezionali. È il caso per esempio del gigantesco slum di Kibera (Nairobi, Kenya), descritto qualche tempo fa proprio su queste pagine («Azione» no. 41 del 9 ottobre 2017). Povertà, disoccupazione, emergenza sanitaria, droga, violenza sono la grammatica quotidiana di Kibera. Da qualche tempo tuttavia ricchi turisti occidentali chiedono di visitare lo slum per capire come si possa vivere in quelle condizioni (e magari essere anche ragionevolmente felici). 

A volte è una curiosità morbosa (dark tourism), in altri casi c’è partecipazione e desiderio di aiutare, ma resta difficile essere turisti quando lo scarto di ricchezza e prospettive è tanto elevato (in quei casi, meglio allora partecipare come volontario a un progetto di cooperazione internazionale). A Kibera alcuni giovani residenti si sono inventati un mestiere come guide e ne ricavano risorse preziose, pur ricevendo solo una parte del compenso pagato alle agenzie dai turisti (con l’inevitabile tangente all’onnipresente racket). 

Altri però protestano e si sentono come allo zoo: «Kibera non è un parco nazionale e noi non siamo animali selvaggi». E poi chiedono: «Cosa direste se dei neri come noi se ne andassero in giro per l’Europa o gli Stati Uniti fotografando i più poveri?».