Sono le sette del mattino, abitate a Caslano e dovete recarvi al vostro luogo di lavoro nel centro di Lugano: ignorando il traffico, la distanza è di circa dieci chilometri. Immaginate ora che esista un posto di blocco ad Agno che vi costringa a fare un giro largo, passando da Ponte Tresa e attraversando tutti i paesi del versante meridionale del lago per rientrare in città. Più o meno è ciò che accade ogni giorno a migliaia di palestinesi per spostarsi tra Gerusalemme e Betlemme, due delle mete principali del turismo religioso in Israele.
Il documento di identità che si possiede decreta come si svolgerà questo breve tratto di strada, se nel comfort di un bus climatizzato o stipati su uno stretto bus affollato. Il primo caso riguarda migliaia di pellegrini che ogni giorno visitano i luoghi più famosi della Terra Santa, come la Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, la Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme e la Chiesa della Natività di Betlemme: quest’ultima ospita la grotta nella quale, secondo l’antica tradizione, nacque Gesù.
I cittadini palestinesi, invece, hanno bisogno di permessi di transito per spostarsi tra Israele e Palestina, e dunque devono compiere un’enorme deviazione per aggirare il muro che lo Stato di Israele ha costruito in Cisgiordania; per loro è obbligatoria una corsa di 45 minuti tra sobborghi e strade secondarie a bordo dell’autobus urbano, prima di essere scaricati al Checkpoint 300 sulla Hebron Road.
Il muro fu costruito nel 2002, durante la Seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000. Secondo il governo israeliano la sua costruzione costituiva una misura di sicurezza necessaria per bloccare le tensioni all’interno di Israele, mentre i palestinesi lo definiscono muro di segregazione o dell’apartheid.
Otto metri di altezza a immaginarli non sembrano molti, finché non ci si trova di fronte a una colata di cemento così alta e imponente da dare un senso di vertigine. Nel corso degli anni, a Betlemme, il lato palestinese della barriera è stato utilizzato come tela per molti dipinti e scritti, tanto che è stato descritto come il più grande graffito di protesta del mondo. E la città stessa, da meta di pellegrinaggio religioso, è diventata anche un polo di artisti di strada locali e internazionali.
Quello del britannico Banksy è il caso più famoso: il graffiti artist ha lavorato a Betlemme in maniera saltuaria fin dai tempi della sua prima visita nel 2003, e nel 2005 dipinse nove immagini sul lato palestinese della barriera, descritta come «meta di villeggiatura per eccellenza per i writer». A dicembre del 2007 tornò con nuove immagini per la mostra «Santa’s Ghetto in Bethlehem», organizzata con l’obiettivo di attirare l’attenzione sulla povertà in Cisgiordania e promuovere il turismo della regione.
Ma Banksy non è il solo ad avere utilizzato la barriera come forma di protesta. L’artista americano Ron English ha incollato sulla parete ritratti di Topolino vestito da palestinese con lo slogan You are not in Disneyland anymore. In un’espressione di frustrazione, l’artista palestinese Trash ha disegnato sul muro la parte inferiore di una gamba che sembra averlo attraversato a calci.
Nel 2007, con il progetto «Face2Face», gli artisti francesi JR e Marco hanno organizzato quella che fu considerata la più grande mostra fotografica illegale mai realizzata. In formati monumentali, sulla parete sono stati incollati ritratti di israeliani e palestinesi di professioni e sfondi simili, uno accanto all’altro. L’idea era quella di evidenziare le somiglianze piuttosto che le differenze tra i popoli. Il progetto si estendeva per otto città su entrambi i lati del muro, come Betlemme, Gerico, Ramallah e Gerusalemme. Il progetto fu successivamente ospitato da numerose mostre in tutto il mondo, tra cui la Biennale di Venezia e il Museo Rath a Ginevra.
Nel marzo 2017, Banksy ha inaugurato il Walled-Off Hotel, il cui nome gioca sull’assonanza con il nome della famosa catena alberghiera Waldorf. La struttura – secondo lo stesso Banksy – offre ai clienti «la peggiore vista al mondo»: è infatti costruita a quattro metri dal muro di separazione. All’interno ospita un’esposizione di opere di artisti palestinesi e un museo permanente sul conflitto israelo-palestinese, che include il documentario 5 Broken Cameras (2011). Il film documenta la storia di Emad Burnat, un agricoltore del villaggio palestinese di Bil’in, che aveva acquistato una videocamera per filmare l’infanzia del figlio, ma ha finito per documentare il movimento di resistenza al muro di separazione israeliano eretto nel villaggio. Nel corso delle riprese, le videocamere vengono sequestrate o distrutte, e la storia dei dispositivi è parallela alla storia delle proteste non violente degli abitanti del paese.
Emblematico è anche il caso del murales dell’italiano Jorit Agoch con il ritratto di Ahed Tamimi, l’attivista palestinese incarcerata per otto mesi per aver schiaffeggiato e preso a calci un soldato israeliano nel giardino della sua abitazione. Situata a pochi passi da una torre di controllo, l’opera fu bloccata dalle forze dell’ordine israeliane con l’arresto e la deportazione dell’artista nel luglio 2018.
Molte opere d’arte sono state prese di mira e cancellate dal muro. Alcuni graffiti sono stati rimossi dagli israeliani per censura, molti altri dai palestinesi stessi; il pensiero prevalente era il timore che abbellire il muro attribuisse allo stesso connotazioni positive, rendendolo dunque meno «sbagliato».
Issa, l’artista palestinese autore del graffito Make Hummus, Not Walls, ha iniziato a opporsi all’hotel di Banksy e a quella che lui ha definito una feticizzazione del conflitto e una normalizzazione dell’occupazione. Se è vero che molti degli ospiti del Walled-Off Hotel sono semplici fan di Banksy che conoscono poco o nulla della situazione israelo-palestinese, è altrettanto vero che l’albergo funge da cassa di risonanza per la realtà palestinese e contribuisce all’economia locale generando introiti. I tour organizzati dall’hotel, che includono una visita al vicino campo profughi di Aida, ne sono un esempio.