108 rintocchi per purificare l’anima

Reportage - Voliamo in Giappone per assistere ai festeggiamenti dello Oshōgatsu (正月), ovvero il passaggio dal vecchio al nuovo anno
/ 30.12.2019
di Amanda Ronzoni, testo e fotografie

Sarà una fine d’anno un po’ insolita. Niente cenone tradizionale. Lasciamo anzi il ristorante verso le 21, con una certa fretta, per arrivare in tempo al Chionin (知恩院), nel cuore di Kyoto. Il tempio è sede dello Jōdoshū (浄土宗), la scuola della Terra Pura, filosofia buddhista che arrivò Giappone e si diffuse grazie all’opera del monaco Honen Shonin, fondatore, nel 1175, dell’omonima setta che ancor oggi, insieme a quella del Buddhismo Zen, vanta il maggior numero di seguaci nel paese.

Qui, come in moltissimi templi, nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio, ogni anno si celebra la cerimonia dei 108 rintocchi (Joya no kane, 除夜の鐘), rito di purificazione che permette ai fedeli di prepararsi all’anno nuovo. Si ritiene infatti che il cuore dell’uomo sia afflitto da 108 desideri, o passioni, che vengono cancellati uno ad uno, come annullati, dai rintocchi della campana.

Il Chioin è tradizionale meta di pellegrinaggio da parte dei giapponesi, che arrivano da ogni dove, per via della sua campana, così grande che per essere suonata a dovere richiede l’intervento di una squadra di ben 17 corpulenti monaci. A turno, appesi alle corde, sfruttano il peso del proprio corpo per spingere con più forza possibile un pesante tronco contro l’enorme campana, che tra il XVII e il XIX secolo era ritenuta la più grande al mondo. L’ultimo rintocco deve cadere alla mezzanotte, in modo che sia anche il primo suono del nuovo anno.

Ecco perché ogni anno, davanti a questo tempio in particolare, a partire dalle 8 di sera, si raccoglie una grande folla. Secondo la tradizionale compostezza giapponese, le persone di dispongono in una fila ordinata davanti all’ingresso e attendono pazientemente di poter entrare, con il freddo che morde gambe e piedi, con qualsiasi condizione meteo. Un lungo serpente umano si allunga lungo i recinti del Chioin fino a che gli appositi addetti, con tanto di cartelli che segnalano la fine della coda, non decretano che si è raggiunto il numero massimo di persone stabilito, quindi chiudono il corteo. Tutti quelli che arrivano dopo possono solo stare a guardare i fortunati entrare o decidere di recarsi altrove (a Kyoto ci sono ben 1600 templi buddhisti). La fila non è limitata da corde o transenne, ma a nessuno verrebbe mai in mente di accodarsi «di sfroso»: chi resta fuori riproverà il prossimo anno. 

I monaci cominciano a suonare e l’eco delle loro grida, insieme ai rintocchi, comincia ad arrivare mentre ci spostiamo, pazienti, metro dopo metro, dall’entrata, lungo i viali che si snodano all’interno del tempio. Ci vogliono un paio di ore buone per arrivare fin nei pressi del padiglione che ospita la campana. La sua vibrazione si fa sempre più forte. La lentezza con cui si avanza, l’umidità e qualche goccia di pioggia non sembrano scoraggiare nessuno. I pellegrini arrivano, assistono ad un paio di rintocchi e poi vengono gentilmente fatti uscire. Il nostro timing è perfetto: raggiungiamo la meta proprio poco prima della mezzanotte, con un giovane monaco che scandisce i secondi che ci separano dal nuovo anno. La scena è solenne. L’illuminazione suggestiva. I monaci sono tutti raccolti intorno alla campana: 16 di loro, ognuno una corda in mano, fanno oscillare avanti e indietro il tronco che la colpirà. Il monaco di turno a suonare il rintocco grida «Ee hitotsu» (ancora una volta!), gli altri gli fanno eco e poi rispondono in coro «Sōre» (Ora!), al che il primo si appenderà alla corda principale con tutto il suo peso vibrando il colpo sulla campana. La gente intorno sgomita per prendere foto e registrare video, con gli uscieri che pazienti, ma inflessibili fanno fluire il pubblico verso l’uscita. C’è molta partecipazione, è un momento molto sentito dai giapponesi. Ci sono persone di ogni età e anche diversi stranieri. Il ritmo dei rintocchi, le vibrazioni della campana, le voci ieratiche dei monaci creano una suggestione forte che fa dimenticare stanchezza e freddo. Usciamo un po’ frastornati e raggiungiamo la strada che porta allo Yasakajinja: il viale è completamente invaso da una marea umana che attende di entrare nel santuario shintoista (la religione autoctona del Giappone) per il rito del Hatsumōde (初詣) ovvero la prima visita dell’anno.

Durante i tre giorni di festa del-l’Oshōgatsu (正月) sono molto importanti tutte le «prime azioni» che si compiono: la prima visita al tempio o al santuario, il primo rintocco di campana, assistere alla prima alba, ma anche il primo giorno di lavoro, e così via. È quindi importante arrivare con il cuore puro, depurati dalle scorie nefaste che hanno funestato l’anno passato. Per questo si pulisce accuratamente la casa, si adornano gli ingressi con kadomatsu (門松), decorazioni tradizionali fatte di pino, o in bambù, che secondo la tradizione servono ad accogliere gli ospiti, ma anche i kami (divinità) dell’abbondanza, si predispongono gli shimekazari (しめ飾り), composti da strisce di carta e fili di paglia o riso, che proteggono le abitazioni tenendo lontani gli spiriti maligni, attirando invece quelli benevoli.

A dispetto del volto iper-tecnologico del Giappone contemporaneo, i riti di Capodanno ci parlano insomma di tradizioni antichissime che la modernità estrema non è riuscita a cancellare, ma che si mantengono vive e presenti in un paese che ha nei grandi contrasti uno dei suoi innegabili punti di fascino. Passato e futuro, tradizione e progresso, religione e tecnologia sono infatti solo alcune delle tante facce di un un’anima complessa e tutta da scoprire.

Tanti auguri di Buon Anno!

明けましておめでとうございます (Akemashite omedetoo gozaimas)!