Tutto è cominciato con gli attacchi al segreto bancario svizzero da parte americana, preceduti comunque dalla faccenda degli averi ebrei in Svizzera senza legittimo proprietario, seguiti poi dall’ondata di richieste di risarcimento, culminata con la recente sentenza del Tribunale federale contro l’UBS, marcati ogni volta da puntuali cedimenti sia da parte delle banche, sia soprattutto dall’autorità politica. Ora stiamo però per scrivere un nuovo capitolo di questa storia: l’accordo internazionale per la tassazione delle multinazionali.
La vicenda nasce durante il G-20, il gruppo che riunisce venti paesi, ma in realtà è dominato dalle grandi potenze economiche e politiche mondiali. Proprio loro hanno voluto, già lo scorso mese di marzo, riunire 400 esperti nell’ambito dell’OCSE a Parigi, per definire nuove regole sulla tassazione delle imprese multinazionali. Regole di cui la Svizzera, che è pure membro dell’OCSE, è chiamata ad assumersi la maggior parte dei costi.
La nuova impostazione prende avvio da una generale informatizzazione dei vari sistemi fiscali, il cui scopo finale è quello di mettere in atto una nuova ripartizione dei proventi fiscali provenienti dalle multinazionali. Queste imprese pagano oggi la maggior parte delle loro imposte nei paesi dove si trova la sede principale. Di regola questa è scelta anche per ragioni fiscali ed esistono molte vie per deviare gli utili delle varie società componenti il gruppo verso la sede principale.
Ora, le future regole prevedranno che le imposte siano pagate nei paesi in cui il gruppo realizza la maggiore cifra d’affari. Dietro questa richiesta vi è anche la riflessione che, proprio in un mondo sempre più informatizzato, molti affari possono essere realizzati anche senza essere presenti in loco, via Internet. Si vedono per ora tre possibilità. Per gli inglesi si vorrebbero colpire direttamente sia la piattaforma di «social media», sia il commercio «on line». Gli americani sostengono però un metodo che prevede una ripartizione internazionale degli utili realizzati, compresi quelli immateriali, come per esempio il «marketing». I grandi paesi come l’India o il Brasile vorrebbero che si tassassero le società sulla base di una loro presenza economica significativa nel paese interessato. Paesi come la Germania o la Francia sostengono invece la tesi dell’imposta minima a cui assoggettare ogni multinazionale. Se un paese non dovesse raggiungere questo minimo, la differenza verrà colmata dagli altri paesi.
Come si può vedere, l’applicazione di questi principi non è cosa facile, ma il G-20 preme sull’OCSE affinché applichi una strategia accettata da tutti entro breve termine. Entro il 2020 si chiede l’elaborazione dei principi che raccolgano un consenso generale. In sostanza siamo alla vigilia della creazione da parte dell’OCSE di nuovi «standard» che tutti dovranno applicare. La spinta verso una soluzione del problema viene soprattutto dai grandi paesi, mentre per i piccoli si prospettano forti perdite di entrate fiscali.
La Svizzera si è accorta per tempo della piega che stanno prendendo le discussioni in seno all’OCSE, al G-20 e, ultimamente anche al G-7, il quale già a metà luglio ha chiesto la creazione di un nuovo sistema fiscale internazionale. Non a caso, quindi, il ministro elvetico delle finanze Ueli Maurer, nel contempo anche presidente della Confederazione, sta stringendo contatti con i rappresentanti politici dei piccoli paesi, per creare un fronte che possa opporsi allo strapotere dei grandi. Questa volta la Svizzera non dovrà soltanto adattarsi, ma partecipare alle discussioni.
Comunque per la Svizzera, paese molto legato al commercio internazionale, il rischio è grosso. Il principio non si applica solo alle multinazionali di origine estera, ma anche a quelle locali. Per esempio la Novartis che realizza a livello mondiale una cifra d’affari di circa 51 miliardi di franchi, di cui solo il 2% in Svizzera, dove però paga il 39% sull’utile di 1,8 miliardi di franchi, non lo farà più. Ipoteticamente i 700 milioni di franchi di imposte in Svizzera scenderanno a 39 milioni. Probabilmente la logica radicale dei mercati di vendita non verrà applicata integralmente, ma gli stessi esperti dell’OCSE valutano come molto serie le conseguenze per la Svizzera. Qualcuno giudica persino questo progetto come il più serio attacco internazionale contro la Svizzera, più costoso di quello dovuto alla caduta del segreto bancario e alla soppressione dei regimi fiscali cantonali. Lo stesso Ueli Maurer valuta tra 1 e 5 miliardi di franchi le perdite fiscali. La stima sembra però troppo prudente e potrebbe raggiungere per Confederazione, Cantoni e Comuni i 10 miliardi di franchi. Ai vistosi ammanchi nelle entrate fiscali bisognerà in futuro cercare delle compensazioni.