Un piccolo paese a disagio

Il ’68 in Svizzera – 2 In quale contesto storico matura nel nostro paese la protesta giovanile e studentesca? Un’analisi in due tappe
/ 21.05.2018
di Orazio Martinetti

Gli anni delle «trente glorieuses» (1945-1973) smossero anche gli intellettuali, almeno i pochi che non si erano fatti assorbire dalla «difesa spirituale». I primi segnali di risveglio si ebbero alla metà degli anni ’50. Nel 1955 lo scrittore-architetto Max Frisch, assieme a Lucius Burckhardt e Markus Kutter, redassero un libro-manifesto in cui proposero di ridisegnare la Svizzera a partire dall’urbanistica. L’idea era di fondare una città-modello che non replicasse i collaudati stilemi dell’esposizione nazionale, ma che ponesse al centro un nuovo modo di abitare, di vivere, di lavorare; una città al servizio del cittadino, non il contrario. Progetto ambizioso, anzi temerario, che però permise a Frisch di lanciare alcuni sassi nelle acque stagnanti del dibattito cultural-politico. L’opuscolo, divulgato sotto il titolo achtung: die Schweiz, chiamava alla sbarra la ristrettezza di mente di cui il paese soffriva per mancanza di ossigeno. «Viviamo alla giornata, ossia: senza un piano che guardi al futuro. I nostri partiti politici sono passivi. Si occupano soltanto del presente, della legislatura in corso e delle prossime elezioni. Manca loro ogni grandezza della volontà plasmatrice, perciò sono così noiosi, al punto che i giovani nemmeno ne parlano. La nostra politica non è progettazione, bensì amministrazione… Noi vogliamo una Svizzera che non sia un museo, un centro termale europeo, un ospizio per vecchi, un’autorità di passo, una cassaforte, un luogo d’incontro di bottegai e spie, un idillio; noi vogliamo una Svizzera certamente piccola, ma attiva, che appartenga al mondo…».

Il 1964 – l’anno dell’Expo nazionale di Losanna – fu l’anno in cui la parola «malaise» fece irruzione nel dibattito politico. «Helvetisches Malaise», così un professore di diritto pubblico attivo all’università di Basilea, Max Imboden, definì lo stato d’animo in cui la Confederazione era lentamente scivolata. I sintomi erano l’elevato astensionismo, ovvero il calo della partecipazione al voto, ormai precipitata sotto il 50% nelle consultazioni federali; il peso crescente della propaganda, alimentata da fondi di oscura provenienza; la scarsa efficienza dello Stato e dell’amministrazione. Mancanze e ritardi che Imboden faceva discendere da una carta costituzionale non più al passo coi tempi. Di qui la proposta di por mano ad una revisione totale della Costituzione federale.

La stessa Expo fu oggetto di controversie; contestato, per il suo impianto a forma di istrice, fu soprattutto il padiglione dell’esercito, una costruzione che, per sineddoche, finiva per estendere la simbologia militare alla Svizzera intera: un paese chiuso, aculeato, guidato da logiche meramente difensive.

Segnali d’insofferenza giungevano anche dal fronte della letteratura «engagée», da scrittori come Paul Nizon e Peter Bichsel. Notevole successo riscosse, nell’agosto del 1967, un breve intervento di Bichsel sulla «Svizzera dello svizzero», un testo che, con tocchi lievi e apparentemente candidi, metteva a nudo le quotidiane nevrosi del cittadino medio, la sua indole sospettosa. «Una democrazia senza discussioni sarebbe una democrazia da museo. Il nemico interno della Svizzera è il senso civico stravolto. La posizione del riccio – arrotolato su se stesso con gli aculei verso l’esterno – è diventata il simbolo della nostra indipendenza. Ma anche un riccio deve srotolarsi per procurarsi da mangiare».

Individuare e capire i fattori di «disagio» divenne urgente anche per l’intellighenzia liberale più sensibile alle istanze giovanili. La maggioranza, per la verità, non comprendeva in alcun modo le ragioni dei contestatori, anzi le condannava senza appello. Non così lo storico d’origine grigionese Jean-Rudolf von Salis, che nella sua raccolta di saggi Schwierige Schweiz [Difficile Svizzera], edita nel 1968, invitava le autorità a prendere sul serio le rivendicazioni della gioventù: «Quando partiti e giornali sanno rispondere soltanto con minacce di rappresaglie ad una determinata arroganza giovanile che da numerosi lati è appunto così confusa e disorientata, essi non rendono servizio né agli anziani, né ai giovani e tanto meno all’avvenire del paese. Chi sa soltanto minacciare o vorrebbe opprimere, dimostra soltanto di essere lui stesso disorientato».

Agli occhi della maggioranza moderata («benpensante»), i giovani che sfilavano nelle strade o che organizzavano sit-in erano solo degli sbandati inclini alla violenza: capelloni, drogati, mestatori al servizio del comunismo. A comprova i giornali esibivano le foto dei disordini che si erano verificati all’Hallenstadion di Zurigo al termine dei concerti dei Rolling Stones (1967) e di Jimi Hendrix (1968). L’occupazione dei vecchi magazzini Globus nel giugno del 1968 per ricavarne un centro giovanile («Globus-Krawall») suscitò in tutto il paese un’ondata di indignazione. In realtà gli episodi di violenza furono rari; la maggior parte delle iniziative si svolse in un clima di tensione controllata, in cui prevaleva il bisogno di denunciare pubblicamente le ingiustizie subite da parte di un «sistema» dominato dalle vecchie oligarchie.

Il ’68 fu una camera di combustione in cui confluirono elementi di varia natura e matrice ideologica. Nel corso degli anni erano emersi soggetti che rivendicavano il diritto di parola: femministe, terzomondisti, neomarxisti, antinucleari, anarchici, attivisti stanchi della politica fondata sulle clientele. Movimenti spesso magmatici, influenzati dalle teorie della Scuola di Francoforte (con una predilezione per Marcuse) o addirittura dagli echi della rivoluzione culturale cinese.

L’impatto sulla creazione culturale e sul costume fu comunque enorme. Si pensi al cinema, al teatro, alla musica, alla letteratura; all’abbigliamento, alle acconciature, al modo di socializzare. I fermenti maggiori giunsero comunque dal mondo della scuola, istituzione – com’era il caso della Magistrale di Locarno – ch’era rimasta allo stadio di educandato, prigioniera di precetti pedagogici desueti e retta da regole simili a quelle in uso nelle caserme. Comitati d’azione e di lotta spuntarono in tutti gli atenei; nel mirino della mobilitazione finirono di volta in volta le tasse d’immatricolazione, il numerus clausus per la facoltà di medicina, i piani di studio, la finalità dell’insegnamento, il dialogo (assente) con il corpo docente, la libertà di riunione.

Politicamente il decennio vide imporsi la «nuova sinistra», in polemica con i partiti socialisti (o socialdemocratici) storici, accusati d’immobilismo e di acquiescenza. Il PSA, nato formalmente nel 1969, poteva già contare sull’esperienza di «Politica Nuova», trimestrale fondato nel 1965. A Basilea un gruppo di studenti del locale ateneo dette vita alla prima cellula delle Organizzazioni progressiste svizzere (POCH); nel canton Vaud sorse la Lega Marxista Rivoluzionaria. Dissensi profondi investirono anche le comunità ecclesiali. Sotto la superficie dei gesti plateali o esemplari c’era insomma una società che lentamente mutava pelle, determinando negli uni sconcerto, negli altri euforia.