A Cox’s Bazar, nel sud est del Bangladesh, si trova il più grande campo profughi del mondo. Qui hanno trovato rifugio circa un milione di profughi Rohingya, la minoranza musulmana del Myanmar, fuggita dalle persecuzioni e violenze dallo stato di Rakhine, a maggioranza buddista, nell’estate del 2017. Le stesse Nazioni Unite hanno definito come genocidio le violenze sistematiche dell’esercito birmano contro i Rohingya.
Cox’s Bazar, per la gente del Bangladesh, è una delle zone preferite per le vacanze. Qui si trova la spiaggia più lunga del mondo, 120 chilometri, e nella città di Cox’s Bazar gli alberghi sono numerosi, pronti ad accogliere i numerosi turisti interni. Se ci si allontana dalle spiagge bianche e ci si inoltra nelle colline, a circa un’ora di auto, si entra in una miriade di ghetti, capanne, baracche, che danno vita all’immenso campo profughi. La comunità internazionale sostiene che i Rohingya devono tornare a casa, nelle loro terre nel Myanmar. Ma devono farlo in sicurezza. E questa non può essere garantita: la paura di altri attacchi, morti, violenze è forte. Il ritorno è estremamente difficile e la situazione rischia di esplodere da un giorno all’altro.
Qualcuno comunque dovrà trovare una soluzione definitiva per questo popolo di un milione di persone, apolidi in Bangladesh, minoranza in pericolo nella loro nazione, privati della cittadinanza birmana già dal 1982. Da allora, hanno sempre avuto meno diritti e sono sempre di più stati oggetto di violenza. Fino al genocidio dell’estate del 2017, costretti all’esodo in Bangladesh, al di là di un fiume che li separa dalla loro nazione. La loro patria è esattamente all’altro lato del corso d’acqua: si vedono le sponde, i campi, le case.
Per molti rifugiati la vita a Cox’s Bazar è migliore di quella che vivevano in Myanmar e la paura del governo del Bangladesh è tale che difficilmente riusciranno a farli rimpatriare. Anche se tutti i profughi sognano di tornare a coltivare le loro terre, ma vogliono sicurezza per le loro vite e i loro diritti. Intanto il campo si organizza, vengono create nuove strade, tirate su nuove baracche con tetti e pareti di bambù. Ma le condizioni all’interno di Cox’s Bazar rimangono terribili. Le colline che una volta erano piene di alberi adesso sono spoglie, perché sono stati tagliati ed usati come legna da ardere. Le malattie viaggiano a ritmo sostenuto, così come la puzza di fogna che accompagna la vita di tutti i giorni. E poi se durante il giorno, quando è permesso agli stranieri e alle ONG internazionali di entrare nel campo, la vita sembra scorrere tranquilla, la notte, invece, per i profughi arriva la paura: criminali si muovono tra i vicoli, spie controllano i movimenti della gente.
Il traffico di anfetamine ed esseri umani, che arrivano dal Myanmar, viaggia a pieno regime. A questo si aggiunge la lotta per il controllo politico, economico e sociale del campo. Si sussurra che il controllo dell’immenso campo di Cox’s Bazar e del suo milione di rifugiati sia in mano all’ARSA, Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo militare che ha attaccato le forze di sicurezza di Myanmar nel 2017 e che ha scatenato le rappresaglie e l’esodo. Una donna, che per motivi di sicurezza non vuole dire il suo nome, racconta di quando è dovuta scappare dal suo villaggio: «I militari sono arrivati, erano tanti, impugnavano le armi. Hanno iniziato a gridare che cercavano i militanti dell’ARSA e ci intimavano di andare via. Avevamo paura, eravamo terrorizzati, non sapevamo che fare» racconta, mentre è seduta sul pavimento di terra battuta della sua baracca. «Allora hanno iniziato ad incendiare le case e hanno sparato agli uomini che cercavano di opporsi. Anche mio marito è morto. Ucciso per difendermi». I suoi occhi si abbassano e il suo silenzio racconta molto più delle sue parole le violenze successe in seguito.
Poco più avanti, un’altra donna, sull’uscio della sua baracca, mi invita ad entrare. Ha in braccio un bambino di un anno, mentre il fratello gemello, è sdraiato in una culla, con il respiro affannato, gli occhi tristi: «Ha la febbre alta, da alcuni giorni» mi dice mentre lo guarda. «Mio marito è andato a cercare le medicine. Non si può continuare a vivere così. Non abbiamo niente e i nostri figli rischiano di morire per una semplice malattia». Le baracche sono tutte spoglie, qualche pentola per cucinare, e qualche amaca. Alcuni vestiti appesi alle pareti.Camminando nei vicoli di Cox’s Bazar, molte donne girano velate, lasciando scoperti solo gli occhi. «Quelli dell’ARSA stanno cercando di imporre sempre di più l’ideologia conservatrice, il codice della Shari’a», dice Kyaw che lavora per una organizzazione internazionale e mi accompagna tra i dedali del campo. È vero, sono aumentate le madrasa, le scuole coraniche, ma «la maggior parte sono scuole dove si insegna il dialogo, anche se qualcuno sta cercando di portare la jihad fino qui all’interno».
Per molti profughi il problema principale rimane come sopravvivere e come cercare di costruirsi una vita in questa situazione precaria. Alcuni trovano lavoro nelle fornaci di mattoni o lungo la costa, come pescatori sulle barche dei bengalesi. Questo ha portato a tensioni con la popolazione locale. In un villaggio di pescatori, Mahmood mi racconta che stanno portando via lavoro ai locali, perché si fanno pagare di meno.
Non basta l’aiuto delle organizzazioni internazionali. Bisogna comprare nelle bancarelle dei mercati, che sono sorti un po’ ovunque. È una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il silenzio sul genocidio, nel dicembre 2019 davanti alla corte dell’Aja, della premio Nobel Aung San Suu Kyi, simbolo della lotta alla dittatura militare birmana e oggi Consigliere di Stato, è stato interpretato dai Rohingya come un altro tradimento. Inferno e paradiso sono a pochi chilometri di distanza: i profughi Rohingya con la loro disperazione e le spiagge bianche con i turisti bengalesi che si divertono sulle moto d’acqua. Sono due mondi, quelli di Cox’s Bazar, che non si incontreranno mai.