Un collante per lo Stato federale

Servizio pubblico (1. parte) - Attorno ad esso si coagularono gli interessi divenuti comuni dopo il 1848, poste, ferrovie, esercito ed infine la SSR ebbero un ruolo centrale nel consolidamento dello Stato e dell’identità nazionale
/ 15.01.2018
di Enrico Morresi

Nel 1991 – anno centenario del «patto del Grütli» – Roger de Weck, futuro direttore generale della SSR, allora corrispondente del grande settimanale «Die Zeit» di Amburgo, presentava un corposo dossier sul nostro Paese con queste parole: «La Svizzera è un Paese complicato. Chi non vuole leggere qualcosa di complicato, smetta di leggere qui». Aveva ragione, e l’avrebbe anche ora. Il nostro è un Paese complicato, gli stranieri faticano a capire quando si parla della Svizzera. Ma non è «colpa» di nessuno, e neppure di noi che non sappiamo farci capire. È della storia, della nostra storia.

Le aggregazioni successive che hanno formato l’attuale territorio elvetico ebbero per origine cause e circostanze tanto diverse, e coagulato elementi tanto in contrasto tra loro, che più volte si è dovuto temere che fosse un’impresa impossibile conservare l’unione. Penso ai cantoni alpini della prima alleanza e al loro difficile rapporto con le città: con Lucerna dapprima, poi con Zurigo, Berna, Soletta, agli interessi divergenti che intralciavano l’azione delle antiche Diete e alla difficile ricerca della convivenza durante le guerre di religione... Penso all’estrema varietà delle aggiunzioni: di tipo coloniale (il Ticino, Vaud), di tipo strategico (il Grigioni trilingue), come esito finale di una tradizione di alleanza (Ginevra) e addirittura per un fortunoso affrancamento da potenze straniere (Neuchâtel). La Svizzera bisognò «inventarla» ogni volta, dall’estero qualcuno ci dava una spinta: come al tempo della Pace di Westfalia (1648) o dell’Atto di Mediazione napoleonico (1803). Eppure già esisteva. Il moto che ha fatto la Svizzera come la conosciamo noi conobbe un’accelerata a partire dal 1848. L’Esercito si sarebbe rivelato il più efficace sistema di conoscenza tra i cittadini dei vari cantoni, ma in origine comprendeva corpi di truppa, almeno formalmente, «cantonali». Concorse l’uniformazione delle leggi principali (fino al 1907 vigevano codici civili cantonali, fino al 1942 codici penali cantonali), in seguito ebbe un ruolo importante la legislazione sociale (la Legge sulle fabbriche del 1877, quella sul lavoro del 1914, il sistema previdenziale creato all’inizio del Novecento e continuamente aggiornato). A coagulare gli interessi divenuti comuni concorse infine quello che oggi chiamiamo il servizio pubblico.

La prima mossa spettò alle Poste. L’immagine stereotipata della diligenza del San Gottardo che scende a precipizio dai tornanti della Tremola è rimasta un simbolo: quello della cura che lo Stato federale voleva dimostrare anche alle regioni più discoste, mettendole in rapporto con un servizio uguale per tutti. Divenute privativa della Confederazione nel 1848, «le poste svizzere ebbero un’importanza centrale per il consolidamento del giovane Stato federale, dato che inizialmente furono l’unica istituzione presente sull’insieme del territorio nazionale. Uffici postali, diligenze e postini portarono la croce svizzera in tutto il Paese e rafforzarono la fiducia nell’amministrazione centrale» (K. Kronig, Un’istituzione nazionale, in Dizionario storico della Svizzera, vol. 9, p. 890). Lo stesso accadde con la nazionalizzazione delle Ferrovie, a partire dal 1901. Ogni mossa – è vero – si fece un po’ per voglia e un po’ per forza, e in qualche caso furono circostanze esterne a determinarla. Così avvenne per il servizio pubblico radiofonico, che la Confederazione, titolare per convenzione internazionale delle frequenze radio, si trovò tra le mani quando si trattò di contrastare l’invadenza delle radio nazionali germaniche da nord, italiane da sud, durante il ventennio fascista e poi nazista. Si decise di farlo creando l’unità nella diversità: quattro centri di programma, uno per ogni regione linguistica. Che esagerazione! No, bisognava evitare che il verbo estero raggiungesse anche solo poche decine di migliaia di svizzeri dispersi in zone discoste. Per questo i notiziari radiofonici erano letti da Berna. Gli storici hanno dimostrato che la radio difese capillarmente l’unità nazionale in quel periodo di burrasca e di incertezza. Passata la guerra, ci si trovò a disporre delle strutture tecniche necessarie per essere utilizzate dalla televisione. Tutto lo spazio dell’etere (salvo gli impianti della difesa) fu perciò occupato dal servizio pubblico SSR e solo alla fine del Novecento, liberati dalla scarsità delle frequenze, fu possibile aprirlo alle emittenti private.

Oggi pare che il servizio pubblico sia in ribasso nella considerazione del cittadino. Due relazioni presentate a un seminario di Coscienza Svizzera e raccolte in un volumetto (Servizio pubblico e coesione federale, www.coscienzasvizzera.ch) documentano e criticano «la sua trasformazione in uno spazio di mercato piegato alla concorrenza». Il giudizio può dipendere da dove si giudica: è un’involuzione poco avvertita nelle regioni urbane centrali (Zurigo, Ginevra-Losanna) ma penalizza le regioni di peso medio (Lucerna, San Gallo, Friburgo) e minaccia quelle discoste dai centri (Grigioni, Ticino, Vallese, Giura). Le stesse scelte politiche negli ultimi decenni si sono sempre più accentrate – verso la Berna federale, ma pure verso Bruxelles e Strasburgo, divenuti centri di produzione giuridica sovrannazionale. Diversamente però da Paesi come l’Italia o la Francia, in Svizzera il moto può essere letale: le regioni decentrate (i cantoni) mantengono infatti una quota di potere decisionale importante. In altri Paesi, la norma dell’art. 142 della Costituzione («I testi sottoposti al voto del popolo e dei cantoni sono accettati se approvati dalla maggioranza dei votanti e dalla maggioranza dei cantoni») sarebbe un impedimento a governare: in Svizzera è la storia che giustifica un tale decentramento. E finora ha funzionato.

Ma il mantenimento di una cultura pubblica di questo tipo implica tutta una serie di esigenze. Occorre che ci sia una «sfera pubblica» sufficientemente provvista di risorse. Che significa? Il filosofo Walter Privitera la distingue dall’ «opinione pubblica», intesa questa come registrazione delle convinzioni, inclinazioni o umori del pubblico: la «sfera pubblica» è più ambiziosa, consiste in un piano superiore di giudizio: è «opinione ragionata insieme ad altri su problemi di interesse generale» e per essere ricca e funzionante deve avere al suo servizio mass media e giornalisti che – secondo la magistrale definizione di Jürgen Habermas – «ricevono imparzialmente problemi e stimoli espressi dal pubblico e poi espongono il processo politico all’obbligo di legittimarsi e di rispondere alle critiche».

Occorre però badare alla buona salute degli strumenti in grado di alimentarla, la «sfera pubblica». A me pare che la SSR risponda bene al mandato di cooperare alla formazione e al mantenimento di tale sfera, raggiungendo tutti i comparti del Paese, anche i più discosti. Anche la stampa vi contribuisce, naturalmente. Già ora, su questo fronte si assiste a un fenomeno di concentrazione del potere (fusione della proprietà delle testate) e di depauperazione dei contenuti (concentramento delle redazioni) a netto danno delle regioni meno forti o periferiche. Avvenire della SSR e avvenire della stampa scritta non possono essere tenuti separati. È lo sfondo su cui si proietta la discussione nella votazione federale del 4 marzo 2018, e sarà il tema del prossimo articolo.