SSR in mutamento

Servizio pubblico - I risparmi annunciati per 100 milioni di franchi comportano numerosi tagli, intanto cambia (e si riduce) la fruizione
/ 03.12.2018
di Enrico Morresi

L’esito della votazione popolare del 4 marzo è stato interpretato come un atto di fiducia nei confronti del servizio pubblico radiotelevisivo. Si può essere d’accordo. Sul rifiuto dell’iniziativa può tuttavia avere influito anche la promessa di una fattura più leggera da pagare, a partire dal 2019, per ricevere i programmi. Si è parlato poco, in seguito, della cura dimagrante che la Confederazione voleva comunque imporre all’ex monopolio SSR: cento milioni da tagliare, a partire dal 2019 (alla RSI: dieci milioni), di cui venti da investire in nuovi programmi, in particolare fiction svizzere. Le misure finora annunciate hanno suscitato reazioni soltanto negli ambienti professionali interessati. È tempo che si cominci a riflettere sulle conseguenze che le decisioni avranno per l’utente, ma anche sul futuro della comunicazione radiotelevisiva.

La Concessione federale da sempre assegnava a regioni linguistiche e cantoni diversi i centri di produzione della radio e della televisione di servizio pubblico. Distribuzione secondo le lingue nazionali, per cominciare: quattro società regionali, una per regione linguistica, ma anche sedi locali diverse per alcuni servizi nelle due regioni più grandi: per esempio, in quella germanofona, la Televisione a Zurigo, la Radio in parte a Berna (le notizie) in parte a Basilea (la cultura); per quella francofona, la Televisione a Ginevra, la Radio a Losanna. Zurigo e Losanna sono ora destinate ad accentrare la produzione della rispettiva regione linguistica. Ai giornalisti che protestano si fa notare che la SSR preferisce «risparmiare nei muri» che sulle persone. In Ticino è già in atto il trasferimento di tutta la produzione nel Centro di Comano, lo studio di Lugano-Besso sarà messo in vendita.

Di sicuro, il modello vigente finora rifletteva meglio la struttura federalista della Confederazione. La vicinanza al territorio è importante, soprattutto per l’informazione: e se qualche volta a noi pare che la RSI esageri quando considera la Svizzera italiana le nombril du monde, la situazione al sud delle Alpi può ancora essere ritenuta adeguata. Ma non sarà il caso dei cantoni più periferici, come San Gallo, Turgovia, Neuchâtel, il Giura… Se poi si considera che il servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe profilarsi come l’antidoto, o la compensazione, per la concentrazione già in atto nella stampa scritta, si misura il rischio che la cura dimagrante della SSR può far correre alla qualità del giornalismo nel suo insieme, accelerando il moto centripeto.

Tutto questo avviene sullo sfondo della transizione da un regime di fornitore unico a un regime di fornitori diversi. Si assiste a una moltiplicazione delle opportunità: dal 2013 al 2017 il numero dei canali in lingua italiana reperibili nella Svizzera italiana è raddoppiato: erano una trentina nel 2013, sono una sessantina oggi. Ma una parte dovremo sempre più andare a cercarla, a pagamento, presso altri fornitori. Alcuni ci offrono, oltre a molti canali radio-televisivi, il telefono o il computer di casa: come Swisscom, Sunrise, UPC, ecc. Ma ci sono fornitori ancora più specializzati: per il cinema, lo sport, o i programmi per bambini. Già ora è così per il calcio e l’hockey su ghiaccio: se uno desidera spaziare su tutta l’offerta, li trova pagandoli a parte. A chi si lamenta che alla RSI i film premiati ai grandi festival non si vedono più si risponde che, oggigiorno, a comprare i diritti di diffusione non sono più solo le stazioni storiche (la RAI, la BBC, l’ARD/ZDF, France Télévision) bensì aziende multinazionali private disposte a pagarli a prezzo di mercato per offrirli in esclusiva sulle loro reti. Alcune (come Netflix) finanziano i nuovi film addirittura prima che vengano girati.

Una contrazione dolorosa si appresta a operare la TSI con la rinuncia a La2, il secondo programma televisivo diffuso anche via etere. Costa molto ed è poco seguito, tranne che per lo sport: la fruizione oggi è caduta al 7,4% del pubblico. La perdita sarà avvertita dagli sportivi e dagli amanti delle riprese di vecchi programmi: per questo la Direzione di Comano non accetterà di lasciarlo cadere se non sarà sicura che tutti i provider principali (Swisscom, Sunrise, UPC, ecc.) la offriranno nel loro «pacchetto».

Un altro cambiamento che sarà avvertito, sia pure da una parte minore del pubblico, riguarda il tipo di segnale con cui vengono trasmessi i programmi radio. Dal 2024 la radio non userà più la modalità FM (modulazione di frequenza) ma la DAB (Digital Radio Broadcast). I vecchi apparecchi saranno fuori uso. Ma già ora, i ricettori rimasti su FM sono una minoranza (il 40% del totale) e l’85% delle auto nuove è equipaggiato per ricevere in programmi radio in DAB. Si direbbe una transizione en douceur: ma forse non varrà per tutto.

Il paesaggio della radiotelevisione apparirà fra non molto radicalmente mutato. L’immagine «tradizionale» dell’utenza RSI: quello di una grande famiglia raccolta ogni giorno alle 12.30 all’ascolto del Radiogiornale di ReteUno e alle 20.00 davanti allo schermo del Telegiornale – reale fino alla svolta del secolo – non corrisponde più alla realtà. I consumi si frantumano e si disperdono. Le quote di ascolto, giudicate con il metro europeo, possono sembrare ancora favolose: quasi un terzo (29%) del pubblico potenziale presente su La1 nelle ore serali, e addirittura il 75,1% all’ascolto della radio. Ma queste quote sono tutte in diminuzione: La1 faceva registrare il 25,6% di ascolti su tutta la giornata nel 2013: ora è scesa al 20,9%. In parte la diminuzione è stata compensata dalle radio (e televisioni) private: ma è il consumo in genere che si erode. Di questo i responsabili dei vari programmi (pubblici o privati) tengono già conto: sul web, la rete Internet, si possono già ricevere servizi non disponibili prima. Non occorre più attendere l’ora fissata per il Notiziario: le notizie sono date in tempo reale, appena caricate dalla redazione, immagini comprese. Tutti i programmi si possono riascoltare e rivedere su podcast (radio) e play TSI (televisione) ed esistono programmi – per i bambini, per esempio – ricevibili solo via web.

Quello del consumo di media radiotelevisivi via Internet si profila tuttavia già come un problema politico. Nell’ultima edizione del Rapporto «Qualität der Medien» (2018) si rileva la crescita dei cosiddetti «Newsdeprivierte», ossia dei fruitori di Internet che non scelgono l’informazione quando cliccano sul loro apparecchio (in prevalenza lo smartphone che si tiene in mano): categoria cresciuta dal 21% al 36% della popolazione tra il 2009 e il 2018. I giovani tra i 18 e 25 anni che non guardano mai le notizie sono passati dal 32% al 53%. Se si associa questo fenomeno all’astensionismo dalle votazioni il quadro si oscura ancora di più. Il concetto stesso di «sovranità popolare» sarebbe da rivedere criticamente.

C’è ancora qualcuno che ritiene sia una sinecura lavorare alla radio o alla televisione?