Il concetto di «carrello della spesa» in epoche di elevata finanziarizzazione o, anche solo volgendo lo sguardo al settore reale, di rapida affermazione dell’ambito terziario sembrerebbe non abbisognare di particolari approfondimenti. Spese alimentari e, prima ancora, sostentamento hanno rappresentato bisogni essenziali dell’umanità − quindi, potrebbero ormai essere dati per «acquisiti». Tale approccio parrebbe trovare ulteriore conforto teorico nella cosiddetta «piramide dei bisogni di Maslow», con cui lo psicologo americano suddivise gerarchicamente nel 1954 le necessità individuali «coronate» idealmente dall’autorealizzazione. Margine di dubbio, poco, quindi.
Se ci si limitasse a ciò, difficilmente si potrebbero però spiegare i nuovi trend alimentari oltre che il ritorno nel Ventunesimo Secolo all’attenzione per il «carrello della spesa». Sebbene sia generalmente vero che al crescere del reddito medio (vedi tabella sulla colonna a lato, ndr), l’incidenza delle spese alimentari diminuisca, è altrettanto che il consumatore sia con il tempo divenuto sempre più sensibile a origine, qualità e caratteristiche del prodotto acquistato: in altri termini, la variabile «prezzo» non è necessariamente più l’unica ad essere determinante nel processo decisionale. Se si possono individuare distinzioni di esigenze fra la platea dei consumatori in base a fasi e stili di vita, istruzione e benessere economico, è altrettanto vero che l’acquirente «moderno» vuole essere sempre più informato.
Il cibo è, dunque, negli ultimi anni ritornato alla ribalta sociale e mediatica − forse aiutato anche dalle molteplici trasmissioni di successo a sfondo culinario. Tornando alla piramide di Maslow inizialmente menzionata, si ha piuttosto l’impressione che essa si sia rimodellata in circuito, in cui il raggiungimento dell’ultimo step (cioè di autorealizzazione) non esclude ripensamento o interessamento rinnovato per i primi «gradini» (fra cui per l’aspetto alimentare). Delle due l’una: o l’approdo a tale «condizione ideale» induce a rileggere le conquiste pregresse in chiave diversa – nello specifico, facendo assurgere la stessa nutrizione a stile di vita, modo di essere, occasione di incontri − o, qualora non si fosse ancora pervenuti al vertice della piramide, ci si concentri sull’affinamento di quei bisogni fino ad allora considerati soddisfatti.
Ecco che le spese alimentari ritornano ad essere (anche nelle società più evolute) scelta importante − magari non in termini economici a fronte degli incrementi della capacità d’acquisto individuale, ma certamente per «peso» sociale: sottovalutarle sarebbe un grave errore per il settore retail. Per assurdo, potrebbe essere la globalizzazione ad avere reso il consumatore − in questo suo «ritorno alle origini» (cf. bisogni fisiologici nella piramide di Maslow) − sempre più consapevole ed attento a tematiche ambientali, brevità della filiera di fornitura e sostenibilità da affiancare all’immutata rilevanza del prezzo finale.
Dotati di questa nuova conoscenza, sarebbero molti i settori a disporre di margini d’azione migliori per parare «colpi» di crisi o restrizioni nella fornitura di prodotti intermedi. Sfruttando poi la (sempre più frequente) richiesta del consumatore «tipo» di potere accedere a prodotti sostenibili e, laddove possibile, con una qualche attinenza territoriale, molti gangli contrattuali potrebbero presto ritrovarsi sempre più «svincolati» da rischi di fornitura derivanti da costose (e, talvolta, difficili) importazioni estere.
Se non meraviglia che il «peso» della spesa alimentare nelle società più ricche tenda a diminuire, è anche vero che i dati statistici spesso non rispecchiano appieno la realtà: ad esempio, il junk food, cioè il cosiddetto «cibo spazzatura», non ci caratterizza certamente per prezzi elevati – per cui, nelle società, in cui lo stesso abbia preso prepotentemente piede, ne fa diminuire il «peso» economico nella voce di spesa alimentare. Ciò non toglie che la sfida per il venditore del Ventunesimo Secolo (o «2.0», utilizzando una formula davvero abusata) sia proprio la creazione di un legame saldo (e credibile) fra modernità e tradizione, convenienza e qualità, territorialità ed intercontinentalità.
Certo è, però, che considerare la spesa alimentare limitatamente alla sua incidenza statistica nel paniere di consumi individuali (e, quindi, derivarne la diminuita importanza) sarebbe fuorviante. Per quanto paradossale il ritorno «modernizzato» alle origini possa sembrare, esso è un altro «scherzo» della globalizzazione, che non smetterà certo presto di stupirci.