Saïda Keller-Messahli è una donna instancabile. Non manca occasione per esprimere il suo giudizio su temi legati all’islam che improvvisamente infiammano il dibattito pubblico e politico in Svizzera: il rifiuto di stringere la mano a un’insegnante, il divieto di partecipare alle lezioni di nuoto miste, il finanziamento estero delle moschee. L’esperta di questioni islamiche è un’interlocutrice disponibile e molto apprezzata dai giornalisti. Una popolarità che ha però un rovescio della medaglia. Esprimendosi senza giri di parole si è fatta molti nemici, soprattutto nelle cerchie dei fondamentalisti islamici. «No, io non ho alcuna paura», ci dice nonostante abbia ricevuto minacce di morte. Nemmeno dopo la pubblicazione del suo libro Islamistische Drehscheibe Schweiz, (Svizzera, crocevia islamista), in cui getta uno sguardo dietro le quinte delle moschee.
Sono circa 370mila i mussulmani residenti in Svizzera, la maggior parte sono credenti moderati e ben integrati. La loro voce è però flebile, quasi impercettibile. Non così quella della 60enne Keller-Messahli. «Non so perché lo faccio», ci dice. «Forse questa combattività è insita nel mio carattere».
In una recente intervista Hans-Jürg Käser, presidente della Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia della Svizzera, ha indicato che il Servizio delle attività informative della Confederazione segue con particolare attenzione 23 imam nel solo canton Berna. È una cifra che la sorprende?
No, per nulla. In Svizzera ci sono circa 300 moschee e visto che solo una piccola parte si trova sul territorio del canton Berna, questa cifra ci ricorda quanto sia acuto e grave il problema dei predicatori che insegnano e diffondono l’odio nel nostro Paese.
Delle circa 300 moschee in Svizzera, quante sono quindi quelle che si rifanno a una visione radicale dell’islam?
Il loro numero dipende dalla definizione che diamo al termine «radicale». Osservo semplicemente che la maggior parte delle moschee diffonde dei valori e dei principi che sono in netto contrasto con i diritti fondamentali e i principi democratici della nostra società. Promuovono, per esempio, la separazione di genere, l’obbligo di portare il velo per le ragazze, l’istituzione illegale di scuole dell’infanzia mussulmane oppure invitano predicatori itineranti salafisti in Svizzera. Ci sono poi alcune moschee che si pavoneggiano per il numero di persone che sono riuscite a convertire all’islam oppure che danno molta importanza alla struttura delle loro organizzazioni nazionali e internazionali. Altre favoriscono la creazione di una società parallela, un mondo maschile con una dinamica propria, autosufficiente e che prende chiaramente le distanze dal resto della società da un punto di vista sia linguistico sia culturale.
Anche in Ticino ci sono quindi simili edifici di culto mussulmani?
In Ticino ci sono circa dodici moschee. La perquisizione della moschea di Viganello da parte della polizia ci insegna che il pericolo della radicalizzazione islamica si annida anche a Sud delle Alpi.
Hans-Jürg Käser chiede un giro di vite nei confronti dei mussulmani radicali. Lei ha spesso rinfacciato ai politici e alle autorità di peccare di ingenuità, di non voler vedere il problema. Ma non mi pare che la politica sia cieca.
Il signor Käser ha da tempo riconosciuto il problema. Altri invece non vogliono assolutamente guardare in faccia la realtà e minimizzano il fenomeno del radicalismo islamico e della minaccia salafista in Svizzera.
Chi sono gli altri? Lei ha affermato in un’intervista che ci sono dei politici che vivono in una sorta di «trip della tolleranza».
Le faccio un esempio. La consigliera di Stato zurighese del Partito socialista, Jacqueline Fehr, si è espressa in favore di un riconoscimento di diritto pubblico delle associazioni mussulmane della Bosnia. A questo proposito ricordo che il leader dei rappresentanti della comunità islamica bosniaca in Svizzera è il gran mufti Hussein Kavazovic. Fino a poco tempo fa era membro dell’Unione internazionale degli studiosi mussulmani, un’organizzazione islamista, e sedeva nel gruppo dirigente dei Fratelli Mussulmani. Kavazovic ha esercitato quindi un forte influsso sulle moschee della diaspora bosniaca. Non sorprende quindi che in Austria i bosniaci siano uno dei gruppi più importanti tra i jihadisti.
Nel suo libro Islamistische Drehscheibe Schweiz (Svizzera, crocevia islamista) ha gettato uno sguardo dietro le quinte delle moschee in Svizzera. Cosa ha scoperto?
Che abbiamo un problema nella maggior parte delle moschee; in quelle turche come pure in quelle bosniache, albanesi o arabe. Vengono trasmessi dei valori che impediscono non solo l’integrazione sociale dei mussulmani in Svizzera, ma che ne favoriscono in maniera attiva l’isolamento e la segregazione sociale.
Ha anche scoperto che l’Arabia Saudita ha un ruolo fondamentale nel finanziamento delle moschee.
Sì, proprio così. Le faccio un esempio per spiegarle quale influsso esercita questo Paese sulle moschee in Svizzera. Sette anni fa, il Regno dell’Arabia Saudita ha donato 15 milioni di franchi alla Fondazione culturale islamica di Ginevra, ossia alla moschea di Petit-Saconnex. Il versamento di questo contributo viene espressamente indicato nel quarto capitolo degli statuti della fondazione, statuti che ho pubblicato nell’appendice del mio libro. Sono però veramente poche le moschee che dichiarano in maniera trasparente la provenienza di simili donazioni o finanziamenti esteri.
Le moschee sostengono però che si finanziano con le quote dei loro membri o con donazioni di enti e istituzioni locali.
È compito delle moschee dimostrare in maniera trasparente e cristallina da dove provengono i soldi grazie a cui si mantengono. In questo momento il loro finanziamento è avvolto da un velo di mistero. Alcune moschee importanti, come quelle di Wil, nel canton San Gallo, o di Netstal, nel canton Glarona, hanno speso milioni di franchi per l’acquisto di un terreno edificabile e per la costruzione del luogo di preghiera. Non credo proprio che i membri albanesi, macedoni o bosniaci di queste comunità mussulmane siano così facoltosi e possano fare donazioni così importanti.
Perché è tanto importante conoscere come vengono finanziate le moschee in Svizzera?
Perché il finanziamento delle moschee in Europa da parte di altri Stati non è né disinteressato né innocuo. Con denaro, piccoli privilegi, materiale propagandistico e predicatori itineranti possono esercitare il loro influsso sul contenuto del messaggio veicolato nelle moschee. Solo esigendo la massima trasparenza sui finanziamenti evitiamo che la popolazione nutra dei dubbi su ciò che avviene nei luoghi di preghiera musulmani.
Quale influsso esercitano le moschee sulla radicalizzazione e sulla diffusione del terrorismo di matrice islamica in Svizzera?
Prima di diventare un terrorista, una persona vive una trasformazione mentale che è favorita da idee e opinioni islamiste. Per questo motivo è importante impedire ai fondamentalisti islamici, come il predicatore pregiudicato Shefket Krasniqi o il politico salafista del Kosovo Gezim Kelmendi, di parlare nelle moschee; corriamo altrimenti il rischio di alimentare la radicalizzazione islamica in Svizzera. I due si sono rivolti ai fedeli riuniti in preghiera nelle moschee di Aarburg e Regensdorf, comunità che attraverso l’Unione degli imam albanesi della Svizzera indicano di rappresentare tutti i musulmani del Paese. Non dobbiamo dimenticare ciò che è avvenuto nelle moschee di An’Nur a Winterthur o di Errahmen a Bienne.
Come possiamo allora evitare la presenza di predicatori dell’odio nelle moschee in Svizzera?
Prima di venire in Svizzera, i predicatori itineranti stranieri dovrebbero essere obbligati a chiedere l’autorizzazione alle autorità elvetiche. Ciò impedirebbe loro di andare di moschea in moschea, quasi in incognito e in maniera del tutto indisturbata, e diffondere la loro visione distorta dell’islam.
Non basterebbe formare gli imam in Svizzera? Se sono integrati socialmente e sanno parlare la lingua del posto, per loro sarà più difficile predicare l’odio, com’è avvenuto nella moschea di Bienne.
Sì, certo la formazione degli imam in Svizzera è un’idea che sostengo. Tuttavia risolve solo in parte il problema. Per questo motivo, secondo me dovremmo elaborare una legge sull’islam, così come ha fatto l’Austria, in cui vengono chiarite e regolate a livello nazionale tutte le questioni spinose, per esempio il finanziamento, le bancarelle dell’organizzazione «Lies» (Leggi, ndr.), i padri spirituali mussulmani nelle prigioni e negli ospedali.
Lei è per una politica di «tolleranza zero». Dal 1° luglio 2016, in Ticino è in vigore il divieto di dissimulare il volto. Quando parla di politica di «tolleranza zero» pensa all’adozione di leggi analoghe a livello nazionale, così come vuole un’iniziativa anti-burqa del comitato di Egerkingen?
No, mi riferisco soprattutto ai predicatori dell’odio e alle aberrazioni dell’islam politico. Le loro richieste nei confronti della società sono contrarie a ogni tipo di convenzione democratica: il rifiuto di stringere la mano a una donna, l’obbligo per le ragazze di portare il velo, il divieto per i bambini mussulmani di festeggiare con gli altri il Natale o l’introduzione di una segregazione di genere già a partire dell’infanzia. Nel Corano non si parla né di velo né di velo integrale per le donne mussulmane. È una tradizione preislamica, ripresa non solo da alcuni mussulmani. I mussulmani radicali hanno però conferito a questo capo d’abbigliamento un’enorme importanza, rendendolo obbligatorio per le donne e trasformandolo in un simbolo della loro idea di islam.
Ma il divieto di indossare il velo è compatibile con la libertà di espressione e di religione?
Visto che non si tratta di un precetto religioso, non stiamo violando la libertà di religione. Inoltre anche questo diritto può essere in contrasto con altri diritti democratici fondamentali. Per esempio, il diritto fondamentale alla libertà di espressione di una persona può violare il diritto della personalità di un’altra persona.
In Svizzera vivono circa 370mila musulmani. Stando a un recente rapporto sulle religioni della Fondazione Bertelsmann, i mussulmani sono ben integrati nel nostro Paese. Con una politica di «tolleranza zero» non rischiamo di alimentare un clima di sospetto generalizzato, di crescente islamofobia?
No, con una politica coerente e che non fa sconti agli integralisti difendiamo proprio il 95 per cento della comunità mussulmana, formata da credenti moderati, dalla minoranza estremista. Inoltre non cediamo completamente il campo politico ai populisti che spesso fomentano proprio questo clima di sospetto nei confronti di tutti i mussulmani. E poi va ricordato che i fondamentalisti islamici usano volentieri il termine «islamofobia» per zittire i mussulmani che li criticano. Infine nutro dubbi sulle cifre pubblicate nel rapporto della Fondazione Bertelsmann. Stando al sociologo esperto in materia di migrazione Ruud Koopmans, i dati pubblicati dalla fondazione tedesca contraddicono tutte le statistiche precedenti in cui si evidenzia che in Germania i mussulmani sono più spesso disoccupati dei non mussulmani.
Bibliografia
Islamistische Drehscheibe Schweiz – Ein Blick hinter der Kulissen der Moscheen di Säida Keller-Messahli; edito da NZZ Libro, Neue Zürcher Zeitung, 2017, Zurigo.