Quei connazionali indesiderati

Che cosa fare con i cittadini elvetici militanti nell’ISIS catturati dai curdi? Il Consiglio federale vorrebbe evitare di doverli rimpatriare dalla Siria, ad eccezione dei minorenni
/ 25.03.2019
di Marzio Rigonalli

Con la sconfitta militare dello Stato islamico, è sorto il problema delle migliaia di combattenti, provenienti da una quarantina di paesi, che si sono recati in Siria ed in Iraq. Che cosa conviene fare con questi terroristi, con questi sostenitori dell’ISIS, in gran parte autori di crimini atroci? Circa 3000 jihadisti stranieri sono detenuti nelle prigioni delle milizie curde nel nord-est della Siria. Tra di loro, un buon numero proviene dagli Stati occidentali. Sono terroristi in possesso di passaporti britannici, francesi, tedeschi, o di altre nazioni. Ci sarebbero circa 150 cittadini francesi, 55 belgi, 40 tedeschi, 100 svedesi, 30 austriaci, più di 100 britannici e altri cittadini provenienti da altri paesi europei. Ci sono anche detentori di passaporti elvetici. Le informazioni diffuse finora indicano che negli anni scorsi avrebbero raggiunto lo Stato islamico circa 90 cittadini svizzeri e che oggi, nelle prigioni del nord-est della Siria, ci sarebbe ancora una ventina di persone, tra i quali anche 6 bambini. La maggior parte sarebbe partita dalla Svizzera romanda.

Due sono state le sollecitazioni rivolte ai paesi occidentali. La prima è arrivata dalle milizie curde, che hanno invitato i governi a riprendersi i loro connazionali terroristi. Queste milizie hanno dato un importante contributo militare alla vittoria contro l’ISIS. Andrebbero ricompensate e non sarebbe sicuramente proponibile chieder loro di gestire la detenzione di quegli stranieri che prima hanno combattuto e poi fatto prigionieri. Insomma, non si può chieder loro di nutrire e di sorvegliare per un tempo indeterminato i terroristi arrestati. La seconda sollecitazione, ma forse sarebbe più corretto parlare di un quasi ultimatum, è giunta da Donald Trump. Con un tweet, diffuso a metà febbraio, il presidente americano ha chiesto ai paesi europei di riprendersi i loro connazionali, combattenti dello Stato islamico, di processarli e di condannarli. Senza una risposta positiva da parte dei governi occidentali, gli Stati Uniti avrebbero liberato i terroristi prigionieri, mettendo così in circolazione delle bombe ad orologeria. La minaccia di Trump venne smentita dalle stesse milizie curde e non suscitò immediate reazioni da parte dei governi europei.

Posto di fronte al problema, il Consiglio federale ha tergiversato a lungo prima di adottare una posizione. Un po’ perché la questione è molto complessa, un po’ perché gli altri governi coinvolti non si sono pronunciati. L’Unione europea non ha adottato una posizione comune ed i singoli Stati, a poco più di due mesi dalle elezioni europee, non hanno fretta di adottare soluzioni che potrebbero ripercuotersi sul piano elettorale. In Svizzera, il tema è stato dapprima dibattuto in seno al Comitato di sicurezza del Consiglio federale, del quale fanno parte tre consiglieri federali: Viola Amherd, capo del Dipartimento federale della difesa, della protezione civile e dello sport, Ignazio Cassis, capo del Dipartimento federale degli affari esteri e Karin Keller-Sutter, capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia. Dal comitato è emersa una proposta che il Consiglio federale ha approvato lo scorso 8 marzo.

Secondo quanto è stato comunicato, il governo vorrebbe che i terroristi venissero processati sul posto secondo gli standard internazionali. In altre parole chiede che vengano giudicati là dove hanno commesso i reati. Si esclude dunque la possibilità di procedere a dei rimpatri attivi. La richiesta di processi in loco si scontra, però, con una difficoltà maggiore. Nei territori dove sono detenuti i terroristi, gli standard internazionali capaci di garantire un equo processo non sono garantiti. Si potrebbe rimediare istituendo un tribunale internazionale, operando con l’Unione europea o nell’ambito della Nazioni Unite, ma fin ora nessun passo, nessun elemento concreto, indica che ci si sta orientando in questa direzione. Rimane dunque possibile che un terrorista svizzero chieda di poter rientrare in patria e di essere giudicato dai tribunali elvetici. Anche in questo caso, però, si incontrerebbero delle difficoltà. Sarebbe molto difficile trovare le prove necessarie per istruire il processo e documentare gli atti violenti commessi dai terroristi in Siria ed in Iraq. L’inevitabile conseguenza sarebbe la pronuncia di pene non sufficientemente gravi, con il ritorno in libertà, entro tempi relativamente brevi, di jihadisti che continueranno a costituire un pericolo per la società. Le soluzioni che si adotteranno, dunque, rischiano di non essere soddisfacenti.

Diversa è la situazione dei bambini, figli di terroristi o semplicemente costretti a vivere nello Stato islamico. Nelle prigioni curde ci sarebbero sei bambini svizzeri. C’è una convenzione internazionale dell’ONU sui diritti dell’infanzia che pone al centro dell’attenzione il bene, gli interessi ed il futuro dei bambini e che è stata approvata praticamente da tutti i paesi. La Svizzera l’ha ratificata nel 1997. Il Consiglio federale, dunque, ha l’obbligo di rimpatriare questi minori e di offrire loro un percorso educativo e integrativo nella società. Anche in questo caso, però, sorgerà un problema, quello della divisione delle famiglie. È giusto rimpatriare i figli, ma non i loro genitori? E se si rimpatriano i genitori, non si è costretti a rimpatriare anche tutti gli altri adulti svizzeri? Le autorità competenti si ritroveranno davanti a situazioni complesse e difficili da risolvere. Dovranno esaminare attentamente ogni caso e definire un iter che sia nell’interesse dei bambini e che sia accettabile sia dal punto di vista giuridico che da quello umano.

Di fronte al ritorno dei terroristi, il Consiglio federale si è mosso privilegiando come obiettivo la sicurezza della popolazione. Lo ha fatto in due modi: cercando di tener lontano dalla Svizzera i terroristi e di impedire un loro ritorno incontrollato in patria. Nel primo caso, ha optato per il processo in loco, riservandosi la possibilità di togliere la nazionalità elvetica ai terroristi binazionali. Una possibilità alla quale la Gran Bretagna ha già fatto ricorso più volte. Nel secondo caso, ha privilegiato la banca dati SIS, il sistema d’informazioni vigente nell’accordo di Schengen, nonché lo scambio d’informazioni con i servizi segreti stranieri. L’accesso a queste informazioni è molto importante. L’ha sottolineato anche la consigliera federale Karin Keller-Sutter in un’intervista rilasciata alla «NZZ am Sonntag», in cui esprime i suoi timori su una Brexit senza accordo tra l’UE e la Gran Bretagna. Un simile scenario implicherebbe la cancellazione immediata di tutte le informazioni che Londra ha inserito nella banca dati SIS e quindi anche di quelle che riguardano i movimenti di terroristi dalla Gran Bretagna verso altri paesi.

Il rimpatrio dei terroristi dello Stato islamico rimarrà un tema d’attualità ancora per molto tempo. Ogni governo occidentale agisce autonomamente, ma è probabile che le scelte nazionali convergeranno verso una soluzione con caratteristiche diverse, ma tutto sommato condivisa, fondata essenzialmente sulla protezione della popolazione da possibili nuovi attacchi terroristici.