Prove generali di decoupling

Scenari – L’emergenza sanitaria sta scrivendo una nuova pagina del divorzio tra le due maggiori economie del mondo innescato con la guerra dei dazi e la crisi Huawei. E quindi anche della globalizzazione
/ 02.03.2020
di Federico Rampini

Mentre il coronavirus è entrato nella sua fase globale, cioè post-cinese, valutare le conseguenze geopolitiche e l’impatto economico è altrettanto difficile che avventurarsi nelle previsioni sanitarie. Gli interrogativi si addensano. Quale sarà il costo di questa epidemia sulla reputazione della Cina e sul suo ruolo nella catena produttiva mondiale? Siamo già passati dall’epidemia alla pandemia? In Europa si arriverà a qualche chiusura delle frontiere, frenando i due milioni di lavoratori transfrontalieri dello spazio Schengen? È questo l’incidente del tipo «cigno nero» che può scatenare una nuova recessione mondiale? E magari far perdere l’elezione a Donald Trump?

«Black swan», cigno nero, è l’immagine metaforica – poiché la grande maggioranza dei cigni sono bianchi – che fu coniata per designare eventi «a bassissima probabilità statistica e ad altissimo impatto». Il XXI secolo ce ne ha già offerti diversi: l’11 Settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle; il 2008 con lo schianto finanziario dei mutui subprime; il 2016 con Brexit e l’elezione di Trump. Il coronavirus entrerà a far parte di questa categoria? Bisogna essere cauti prima di maneggiare le previsioni apocalittiche. Ho un ricordo personale sull’epidemia Sars del 2003 perché quell’anno stavo per aprire l’ufficio di corrispondenza di Repubblica a Pechino; l’allarme sanitario fece rinviare al 2004 il mio trasloco dall’America alla Cina. Perciò ricordo con precisione anche il catastrofismo dei commenti di allora.

La crisi fu meno grave e più breve di quanto si credeva. Certo, allora la Cina pesava il 3% dell’economia globale, oggi il 20%. Anche se Xi Jinping ora dice che il picco dei contagi è superato, e prevede che ad aprile l’epidemia sarà in ritirata (con l’arrivo della buona stagione questo accade spesso per le influenze), una parte del danno è già fatto. Alcuni centri studi calcolano una crescita cinese dimezzata nel primo trimestre di quest’anno. Lo stesso scenario viene fatto per quella americana, che potrebbe crescere solo del 1% da gennaio a fine marzo, anziché il 2%. L’Europa era già sull’orlo di una recessione, ora aumentano le probabilità che ci finisca dentro.

Il mondo sta facendo le prove generali di come vivere senza la Cina. L’Europa le farà su come vivere senza l’Italia? È cominciato quando Xi Jinping – dopo aver colpevolmente censurato per un mese le notizie – ha deciso di bloccare la vita sociale ed economica di 60 milioni di persone, attorno alla città-focolaio di Wuhan: un importante centro siderurgico e metalmeccanico, definita «la Chicago cinese». Poi il resto del mondo ha dovuto proteggersi dalla Cina, imponendo un isolamento che cancella dalla mappa terrestre un mercato di viaggiatori da 150 milioni di voli annui.

Compagnie aeree, navi da crociera e catene alberghiere, nonché le grandi convention aziendali e fiere settoriali, sono vittime sicure: per loro non ci sarà la possibilità di recuperare i clienti perduti in questi mesi perché una nave da crociera (o un albergo vuoto) non può raddoppiare il numero di clienti per ogni letto una volta che l’allarme è cessato. Altri cominciano a prendere provvedimenti altrettanto drastici in casa propria: la Corea del Sud cinge un cordone sanitario attorno a una delle sue maggiori metropoli. Il Giappone ha chiuso le scuole e scivola a sua volta verso una recessione.

Questo accade dopo due anni in cui l’America aveva già tentato di avviare un «decoupling», un divorzio economico e tecnologico dalla Cina. Non solo con la guerra dei dazi di Donald Trump o con le pressioni sugli europei contro il 5G di Huawei. In realtà tutto l’establishment americano, incluso il partito democratico e l’intellighenzia progressista, hanno rivisto radicalmente i propri giudizi sulla Cina di Xi Jinping: sinistra e destra la considerano un rivale minaccioso, la cui ascesa va fermata prima che sia troppo tardi.

Il coronavirus è un cataclisma che nessuno poteva prevedere, neppure nei suoi sogni più selvaggi Trump avrebbe immaginato un simile colpo sferrato alla superpotenza avversaria. Sta di fatto che l’emergenza sanitaria accelera quelle prove generali di «decoupling» o de-strutturazione della globalizzazione. Il clima da Guerra fredda, già percepibile l’anno scorso, sta peggiorando. La dice lunga l’incidente diplomatico attorno al «Wall Street Journal», culminato con l’espulsione dalla Cina di tre corrispondenti di quel quotidiano. L’antefatto è un editoriale pubblicato nella pagina dei commenti del «Wall Street Journal», a firma di uno storico autorevole, Walter Russell Meade.

La tesi di Meade – ampiamente diffusa negli Stati Uniti – è che il coronavirus mette a nudo la debolezza di un regime autoritario, che censurando le cattive notizie ha danneggiato il proprio popolo e ha esportato una malattia nel resto del mondo. Il titolo che il giornale ha dato a quell’intervento, La Cina è il vero malato dell’Asia, ha fatto infuriare Xi Jinping. Il governo cinese ha accusato il «Wall Street Journal» di riesumare pregiudizi razzisti dell’Ottocento, il mito del «pericolo giallo». La reazione di Xi è stata spropositata, con l’espulsione dei tre giornalisti, prontamente condannata dal Dipartimento di Stato americano.

È una spirale che nessuno sembra in grado di fermare. Da una parte l’istinto autoritario di Xi lo porta a vedere ovunque complotti contro la Cina, e a reagire peggiorando ulteriormente la propria immagine internazionale. Xi ne approfitta anche per rimangiarsi le promesse fatte a Trump su un aumento delle importazioni agricole dall’America.

Sul fronte opposto, negli Stati Uniti si rafforza una visione negativa della Cina che sembra precludere un ritorno alla competizione costruttiva dei trent’anni precedenti. Il tono dei commenti sulla stampa americana è sferzante, vedi l’ultimo apparso sul «Wall Street Journal» a firma del presidente di Next Digital, Jimmy Lai: «Non c’è vaccino per il coronavirus, ma questa malattia rivela una verità che pone un rischio maggiore per Xi: non c’è cura per il comunismo cinese se non il crollo del partito».

I costi economici? Non si contano più le grandi fiere cancellate per tenere fuori i potenziali visitatori dalla Cina (che comunque verrebbero bloccati agli aeroporti). Apple è stata la prima delle mega-imprese americane ad annunciare un ribasso nei suoi risultati economici, sia per la caduta delle vendite sul mercato cinese sia perché le sue fabbriche cinesi non forniscono la produzione attesa. Il solo porto di Los Angeles ha già cancellato 40 arrivi di navi porta-container dalla Cina. Tutti i settori produttivi stanno cominciando a prendere le misure del danno: dopo i trasporti e il turismo anche l’automobile e il farmaceutico, l’elettronica e l’abbigliamento.

Perfino chi è scarsamente presente in Cina, non vi ha fabbriche né reti commerciali, scopre che nei propri prodotti sono incorporati dei componenti che venivano da là e ora scarseggiano. Un esempio interessante riguarda proprio i medicinali. Quasi nessuno lo sa al di fuori degli specialisti del settore, ma la maggior parte dei «principi attivi» nei farmaci che consumiamo vengono prodotti in Cina o in India. Se si chiude uno dei canali di approvvigionamento, non sappiamo dove procurarci il componente di base per molti dei medicinali che usiamo.

Trent’anni di globalizzazione fondati sul dogma dell’apertura dei mercati e della complementarietà hanno costruito delle catene produttive e logistiche così complesse che si fa fatica a districare il groviglio, a estrarne la parte cinese e farne a meno per un futuro più o meno lungo. Amazon, che domina il commercio online in tutto l’Occidente, non sa esattamente quanta parte dei 100 milioni di prodotti che mediamente tiene nei suoi magazzini siano destinati a scarseggiare per qualche interruzione nei flussi dalla Cina. Xi Jinping è consapevole dei rischi che corre l’economia cinese e sta facendo di tutto per accelerare un ritorno alla normalità. Grandi aziende come la Foxconn, che assembla gli iPhone per Apple, stanno offrendo gratifiche e aumenti salariali agli operai per convincerli a tornare al lavoro al più presto.

Le due superpotenze rivali su una sola cosa reagiscono all’unisono. In Cina la banca centrale ha ripreso a pompare credito a buon mercato, e il governo prepara piani d’investimenti pubblici per attenuare la crisi. In America la Federal Reserve è pronta a ridurre nuovamente i suoi tassi qualora sia necessario, e il Congresso potrebbe varare un bilancio espansivo. L’Italia e l’Europa erano già in stagnazione prima dello shock da coronavirus, ora Bruxelles allenterà le rigidità di bilancio per consentire manovre di sostegno al reddito. Le prove generali per smontare la globalizzazione rischiano di trasferirsi in Europa, dopo che l’area più produttiva d’Italia è colpita.

Le conseguenze politiche? Qualcuno prevede – o spera – che un arresto della crescita americana sia un colpo alle chance di rielezione di Trump. Altrettanto interessante è capire l’effetto sulla Cina. I cinesi ricordano un detto: «Per chi ha in mano solo un martello, ogni problema sembra un chiodo». Il regime cinese sa fare una cosa molto, molto bene: mobilitare le masse, esercitare l’autorità, comandare il popolo per convogliare tutte le sue energie verso un fine supremo. Quando Xi Jinping chiama ad una «guerra di popolo contro il virus», riesuma slogan che furono della rivoluzione maoista; e poi anche della contro-rivoluzione capitalista. All’inizio il resto del mondo ha visto gli errori e le fragilità della risposta cinese come un segno dei limiti di quel regime autoritario. Poi le cacofonie nella reazione italiana hanno dimostrato che una democrazia non è necessariamente più efficace di fronte all’emergenza.