Secondo uno studio di Swisscanto, ripreso per primo dal domenicale «NZZ am Sonntag», il 58% delle persone che hanno un posto di lavoro, smetterebbe di lavorare prima del limite legale. Solo il 32% giungerebbe fino al limite dei 65 anni (64 per le donne), mentre il rimanente 10% continuerebbe a lavorare anche dopo i 65 anni.
René Raths, del Consiglio d’amministrazione di Swisscanto Pensioni, si è detto sorpreso del risultato, tanto più che l’idea più diffusa tra la gente è ancora quella di dover lavorare più a lungo per poter beneficiare di una rendita di vecchiaia decente. Dovrebbe essere questa la tendenza, considerato anche l’aumento della speranza di vita e i progressi della medicina, anche nel campo della geriatria.
Il campione di dati utilizzato è abbastanza attendibile: 535 istituti di previdenza, con 4,1 milioni di assicurati e un patrimonio complessivo di 680 miliardi di franchi, in pratica l’80% della previdenza professionale svizzera. Come detto, il dato ha destato parecchia sorpresa, poiché il pensionamento anticipato di sei persone su dieci potrebbe aver effetti negativi sulla stabilità delle casse pensioni. Di questo passo, secondo lo studio, le quattro persone attive per un pensionato, nel 2035, potrebbero scendere a sole 2,3 persone.
La tendenza è nettamente contraria a quanto si sta facendo per aumentare l’età di pensionamento e quindi è probabile che questa esigenza, dettata dall’evoluzione demografica, difficilmente sarà accettata dalla popolazione. Sicuramente questa tendenza è oggi favorita dall’elevato benessere di cui gode la popolazione svizzera. Di conseguenza, parecchie persone possono permettersi un pensionamento anticipato, con riduzione della rendita.
Un esempio probante può essere quello di un reddito di 80’000 franchi, che deve generare una rendita complessiva di 48’000 franchi (se vale la regola della garanzia del 60% dell’ultimo stipendio). Ora, nel 2017, la rendita media era di 56’900 franchi e, nel 2013, era perfino di 64’300 franchi. Da qui però si assiste a una costante diminuzione della rendita media e, quindi, del divario che la separa dal minimo teorico del 60% dell’ultimo stipendio. Questo fattore che può incitare a un pensionamento anticipato sta per scomparire. Anche perché, ormai, i capitali di vecchiaia non possono più ottenere quelle rimunerazioni di cui godevano in passato. Lo stesso dicasi anche del tasso di conversione del capitale in rendita. Oggi la rendita media è alta perché il tasso di conversione è elevato, almeno per la parte obbligatoria della previdenza professionale. Non sarà però più così quando giungeranno alla pensione i figli del «baby boom» e il rapporto fra attivi e pensionati peggiorerà sensibilmente.
L’incentivo al pensionamento verrà quindi ridotto, ma non scomparirà del tutto se il terzo pilastro fornirà mezzi sufficienti, mentre potrebbero però aumentare le persone che lavorano dopo i 65 anni, o anche dopo aver cominciato a percepire la rendita di pensione. Qui nasce però un problema fiscale, perché il reddito da lavoro aggiunto alla pensione fa aumentare la pressione fiscale e i contributi all’AVS vanno pagati (oltre la soglia esente), senza migliorare la pensione.
Il prepensionamento ha anche conseguenze di ordine generale. Infatti, all’economia mancherà mano d’opera esperta e specializzata. Si calcola che tra dieci anni mancherà un mezzo milione di occupati, il che consiglia di creare incentivi a continuare a lavorare dopo i 65 anni, magari rivedendo il pagamento di contributi all’AVS che non migliorano la rendita. Sulla cassa pensione si potrebbe invece prevedere un allungamento dell’età di pensionamento (volontario) fino a 70 anni.
Oggi però per chi si avvicina all’età di 60 anni e perde il posto di lavoro, la scelta del prepensionamento può essere un’opzione, magari anche pensando che, più tardi, il tasso di conversione del capitale in rendita non sarà più quello di oggi. Lo studio non lo dice, ma questa scelta è molto utilizzata nelle casse pubbliche, dove le rendite sono più alte e le possibilità di prepensionamento ben rimunerate più frequenti. Anche qui però la situazione sta cambiando e si avvicina a quella delle casse private.
Resta, infine, il grosso problema di coloro che giungono ai 60 anni e non sono più in grado di lavorare. La statistica dice che chi ha una formazione minima, un reddito basso (e quindi anche un lavoro pesante) ha una speranza di vita di 7 anni inferiore alla media. La necessaria flessibilizzazione dell’età di pensionamento deve tener conto anche di queste situazioni. Tanto più se lo scopo della riforma è quello di garantire a tutti la possibilità di scegliere il momento che meglio si addice a un meritato riposo.