È difficile immaginarsi un 2018 più insidioso e più difficile di quello che attende la Svizzera nei suoi rapporti con l’Unione europea. La schiarita vissuta lo scorso 23 novembre a Berna, con gli abbracci e le altre espressioni di cortesia, tra la presidente della Confederazione Doris Leuthard ed il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si è rapidamente dissolta ed ha ceduto il posto ad una tanta inattesa quanto frustrante depressione. La Svizzera è finita su una lista grigia dell’UE, comprendente 17 paesi definiti «non cooperativi» in materia fiscale, e si è sentita dire che le regole borsistiche elvetiche saranno valide nell’UE soltanto per un anno.
Dopo questa scadenza, l’equivalenza della Borsa svizzera potrà essere rinnovata, ma soltanto se ci saranno stati progressi nella trattativa in vista di un accordo istituzionale. La durata di un anno è stata decisa dai 27 paesi membri dell’Unione ed ha provocato reazioni e proteste nel mondo politico elvetico. Ha soprattutto lasciato l’amaro in bocca ai principali responsabili della politica estera svizzera, che si attendevano un riconoscimento senza condizioni, come era avvenuto poco tempo fa con paesi come gli Stati Uniti e Hong Kong. Si è parlato di una misura discriminatoria, di un trattamento ingiusto e della mancanza di rispetto nei confronti di un partner affidabile come è la Svizzera. L’atmosfera tra le due capitali si è subito raffreddata ed una cappa di silenzio è scesa sui rapporti bilaterali.
Come uscirne? Come ristabilire un rapporto bilaterale franco e cordiale, fondato sulla fiducia reciproca? La domanda è d’obbligo. Prima di proporre una risposta, tralasciando le frettolose ipotesi avanzate da più parti nelle ultime settimane, conviene soffermarci sulla realtà oggettiva che oggi caratterizza i rapporti tra la Confederazione e l’UE.
Da un lato, siamo confrontati con un’unione di ben 27 paesi, che in quest’inizio d’anno sta attraversando un periodo, per certi aspetti, abbastanza positivo. Lo dimostrano, in primo luogo, la ripresa economica, che è in corso in tutti i paesi membri, nonché il rafforzamento dell’euro e della posizione dell’Europa nel contesto economico mondiale. Poi, l’intervento deciso di Bruxelles nei confronti della Polonia, accusata di non rispettare lo stato di diritto e di non essere fedele ai principi ed ai valori che sono alla base dell’Unione, poiché ha varato una riforma della giustizia che subordina le autorità giudiziarie a quelle politiche. Infine, il negoziato in corso in vista della Brexit. Le fasi della trattativa, i tempi ed i contenuti che vi vengono affrontati, sono definiti dall’Unione europea e non dalla Gran Bretagna. È Bruxelles che fissa le regole, che stabilisce gli obiettivi da raggiungere, che non consente alla Gran Bretagna di avviare subito trattative economiche con i singoli Stati europei, e che lascia chiaramente intendere a Londra che un paese che non fa parte dell’UE non può pretendere di godere dei vantaggi che offre l’Unione, senza accettarne anche gli oneri e gli obblighi che ne derivano.
Il negoziato sulla Brexit ha dei riflessi anche sulla trattativa tra la Svizzera e l’Unione europea. Bruxelles vuole concludere un accordo con Berna, che ponga in un chiaro quadro giuridico tutti i conflitti e le questioni che derivano dall’applicazione degli oltre cento accordi bilaterali che sono stati sottoscritti dalle due parti. È il cosiddetto accordo istituzionale. Pensa che con quest’accordo si fisseranno le regole necessarie per disciplinare l’accesso al mercato unico europeo, nonché per consolidare e rafforzare la collaborazione bilaterale. Siccome la trattativa è in corso da più anni e la sua conclusione appare ancora lontana, la Commissione europea ha ritenuto che, in definitiva, la Svizzera non voglia concludere questo accordo. Per tentare di convincerla, ha dunque fatto ricorso a quel mezzo di pressione che è rappresentato dal riconoscimento non ancora definitivo dell’equivalenza della Borsa svizzera. E probabilmente, la Commissione ha colto l’occasione per mandare un segnale anche a Londra, mostrando che l’accesso al mercato unico è subordinato a regole ben precise.
Sull’altro versante, di fronte al colosso europeo, c’è la Svizzera, piccolo paese situato al centro del continente ed immerso in un intreccio di rapporti con tanti altri paesi europei. La Confederazione è uno Stato sicuramente in buona salute, ma gode di una capacità negoziale limitata al suo reale potere economico e politico e, negli ultimi anni, ha dimostrato di avere grandi difficoltà quando si è trattato di affrontare il nodo centrale del suo rapporto con l’UE, ossia la definizione di un accordo istituzionale. La ricerca di un’intesa bilaterale in grado di superare l’ostacolo di un’eventuale votazione popolare e di non venir affossata dalla propaganda nazionalista dell’UDC, si è subito rivelata ardua. Per due ragioni essenziali: per causa di un governo diviso, incapace di sostenere un’unica posizione negoziale, e per l’assenza di una chiara strategia. Negli ultimi tempi, il Consiglio federale non sembra aver fatto altro che aspettare l’arrivo di eventi importanti, come lo svolgimento e la conclusione del negoziato sulla Brexit e le votazioni popolari su due iniziative dell’UDC, quella che s’impegna affinché il diritto svizzero primeggi su quello internazionale, la cosiddetta iniziativa per l’autodeterminazione, e quella che chiede l’abolizione della libera circolazione delle persone, ossia la fine degli attuali accordi bilaterali. Sono eventi che potrebbero fornire indicazioni interessanti sui rapporti che conviene intrattenere con l’UE. E l’attesa sarebbe stata volentieri prolungata, probabilmente fino a dopo le elezioni nazionali del 2019.
Adesso, non è più possibile aspettare. Bisogna agire. Nuove idee sono subito emerse, come la creazione di un segretariato di Stato per le questioni europee, od un voto popolare sugli accordi bilaterali. Sono idee che meritano di essere approfondite, ma che non sono sufficienti per superare l’attuale momento difficile. Occorre definire una vera strategia negoziale, con gli obiettivi che si vogliono raggiungere e con i tempi che si ritengono necessari. Una strategia che va anche spiegata all’opinione pubblica, per lo meno nelle sue grandi linee, ed intorno alla quale bisogna concentrare il più ampio consenso politico possibile. Una strategia che sia da supporto ad un dialogo continuo con l’Unione europea, che rimane l’unica strada percorribile per raggiungere gli obiettivi nazionali. Le minacce e le decisioni unilaterali, invocate da alcune forze politiche, soddisfano momentaneamente il proprio orgoglio ed il proprio elettorato, ma non danno risultati concreti permanenti. Nessun piccolo paese riesce a raggiungere i propri obiettivi ricorrendo alle minacce.
La definizione di una vera strategia negoziale sarebbe dovuta avvenire già da tempo. Adesso è più che mai urgente. È un lavoro che spetta in gran parte al nuovo capo della diplomazia elvetica, Ignazio Cassis. Tocca a lui, in primo luogo, ricucire lo strappo con Bruxelles e riporre le relazioni bilaterali su dei binari condivisi. È una prima grande prova e il modo in cui Ignazio Cassis la supererà, ci orienterà sulle sue capacità politiche e diplomatiche.