Sui balconi resiste il tricolore, ma sono finiti gli appuntamenti pomeridiani per applaudire i medici, mettere un po’ di musica, salutarsi agitando le braccia, commuoversi con l’inno di Mameli. Prevalgono la stanchezza, l’ansia di sapere se siamo in discesa sotto lo striscione dell’ultimo chilometro o se ancora ci aspettano montagne da scalare. Si odono sempre meno sirene di autoambulanze, però il quotidiano conteggio dei defunti stringe il cuore e aumenta il senso di precarietà. Si è perso il gusto della vita, domina l’istinto di sopravvivenza. Ciascuno spera di farcela contro il Coronavirus, tuttavia ignora se ce la farà contro la peggiore crisi economica, che ci attende appena metteremo il naso fuori di casa. Dentro le abitazioni ci siamo rimasti, ubbidienti e spaventati, ma non è stato bello e non è bello.
La Lombardia paga il prezzo più alto della pandemia in Italia: un terzo dei casi, la metà abbondante dei morti. E cresce il timore che possa cedere il bastione di Milano città, la provincia l’ha già fatto. Hanno sbagliato tutti, anche venerati maestri come l’infettivologo Roberto Burioni, che il 2 febbraio in tv da Fazio affermava: «Il rischio è uguale a zero». Si è subito ricreduto opponendosi alla micidiale diagnosi della direttrice del laboratorio dell’ospedale Sacco, Maria Rita Gismondo: è poco più di un’influenza. Hanno sbagliato gli esperti dell’Istituto superiore della Sanità non insistendo sulla peculiare necessità di mascherine, di guanti, di tamponi, soprattutto dei ventilatori: la conseguenza sono stati un approccio insufficiente e la mancanza del materiale nella fase più acuta. Ha sbagliato per più di un mese consigli, previsioni, precauzioni l’Organizzazione mondiale della Sanità. Ha sbagliato il presidente del consiglio Conte nell’annunciare che l’Italia sarebbe stata al riparo e nel ritenere che bastava chiudere i collegamenti diretti con la Cina. Nelle tre settimane di febbraio a Malpensa e a Orio al Serio i cinesi sono arrivati a frotte da Parigi, da Francoforte, da Londra senza alcun controllo.
E poi c’è stata la guerra al governo della giunta lombarda di centrodestra, a prevalenza leghista. Gli esiti sono stati catastrofici.Un valzer sconcertante di giravolte, spesso se non sempre ispirate da Salvini, le cui idee esibivano la scadenza del latte di giornata. In tal modo il governatore Fontana e i suoi assessori sono diventati lo strumento, con cui Salvini ha provato a scardinare l’esecutivo di Conte, ma ha finito soltanto con lo scardinare l’enorme consenso, di cui godeva fino a gennaio. Gli ultimi sondaggi danno la Lega al 26 per cento, era al 34. Purtroppo la Lombardia ci si è ritrovata in mezzo fin dal paziente 1 di Codogno con l’andirivieni dal pronto soccorso senza cautela alcuna. Gli si è aggiunta la settimana persa all’ospedale di Alzano in una ridda di ordini contraddittori fino al proclama dei sindaci di Milano, Sala, e Bergamo, Gori, per spingere le proprie città a ripartire. Allora il segretario del pd Zingaretti è venuto a fare l’aperitivo sui Navigli, dove si è contagiato; è spuntato il video di Salvini nel quale invitava i turisti stranieri a visitare il Paese più bello del mondo.
Quando finalmente si è capito che la prima difesa era l’isolamento e l’Italia è stata trasformata in un’unica immensa zona rossa, Fontana e i suoi sono stati presi dalla fregola di distinguersi inasprendo le chiusure governative. Ma lì è esploso il sistema sanitario della regione. L’aveva disegnato il precedente presidente Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione con l’accusa di essersi appropriato di diversi milioni di euro. Puntava sui grandi centri di specializzazione, per metà in mano ai privati. Consolidata fama di eccellenza – oltre a quelli lombardi 160 mila malati provenienti ogni anno dal resto della Penisola – soldi a palate per tutti, ma cancellazione quasi totale della struttura territoriale, i medici di famiglia. Nella fase acuta ha significato l’abbandono della stragrande maggioranza della popolazione. Il dramma delle strade, dei quartieri si è rovesciato sugli ospedali: scoppiavano di pazienti, di richieste d’aiuto, di moribondi, che non si sapeva dove collocare. I medici di famiglia si sono immolati, in Lombardia ne sono morti oltre il 50 per cento del numero complessivo: senza protezione, spesso abbandonati, privi di direttive hanno rappresentato la prima barriera, fatta ahinoi di povera carne umana, al contagio. Inutilmente da gennaio segnalavano l’insorgere di polmoniti fuori dalla norma.L’8 marzo una direttiva della giunta lombarda ha predisposto il trasferimento nelle case di riposo dei malati di Covid-19 dimessi dagli ospedali. È così cominciato il massacro degli anziani, circa 1500.
Molti dei presunti guariti presentavano ancora tracce del virus, però sono stati mescolati ai degenti. Infermieri e medici privi di mascherine, di guanti, di tute sono passati da un reparto all’altro. Al Pio Albergo Trivulzio sono già deceduti 200 ospiti. È il più rinomato ente assistenziale milanese, dove tra l’altro incominciò l’inchiesta di Mani Pulite nel 1992, ma un famoso e apprezzato geriatra, il professor Luigi Bermanaschini era stato licenziato perché pretendeva l’uso delle protezioni. Ci ha poi pensato il tribunale a reintegrarlo. Diversi infermieri hanno raccontato che in alcune residenze la direzione aveva vietato l’uso di guanti e mascherine per non impressionare i ricoverati; allontanati per «aver infangato il buon nome» quelli che rivelarono i primi morti. I magistrati sono già in azione. Gli indagati per epidemia colposa e omicidio colposo plurimo aumentano di giorno in giorno. Sono state effettuate robuste perquisizioni negli uffici regionali. Dalla procura filtrano voci inquietanti sullo spessore dell’inchiesta.
La paura che i posti in terapia intensiva fossero insufficienti, l’incapacità di stilare previsioni credibili sulla curva dei malati hanno indotto a creare in poche settimane un ospedale nei capannoni dismessi della Fiera. È stato chiamato l’ex capo della protezione civile Bertolaso, malgrado la discutibile prova offerta dopo il terremoto dell’Aquila, 2009. Ma Bertolaso sta nel cuore del centrodestra e il suo intervento è stato spacciato come risolutore: purtroppo si è ammalato quasi subito. Non ha perciò potuto presenziare all’inaugurazione con tutti i capataz della Lega, di Forza Italia, di Fratelli d’Italia a incensarsi da soli. Costato 15 dei 21 milioni ricevuti in beneficienza, la struttura accoglie una manciata di pazienti, da 3 a 10, e nessuno ha idea di che cosa farne dopo. Al momento non serve, anzi fioccano le domande se quei soldi non potevano essere impiegati in modo più fruttuoso.
Poche ore dopo che Conte aveva predisposto la riapertura delle librerie, incongruamente serrate a differenza delle tabaccherie, Fontana si è affrettato a mantenerle chiuse. A due giorni di distanza ha chiesto una totale ripartenza dal 4 maggio in una situazione molto delicata, in cui bisogna accuratamente predisporre l’utilizzo di autobus, metro, negozi, fabbriche, per non parlare di bar e ristoranti. Più di un giornale ha scritto che pure quest’ennesima sparata sia stata suggerita da Salvini. Ne è venuta fuori un’inutile zuffa con i governatori del Meridione, dove la fortuna e la saggia applicazione dell’esperienza maturata nel martoriato Settentrione hanno consentito di ridurre al minimo i danni. Purtroppo non è finita.