Non so se avete notato che nella campagna sulla votazione «No-Billag», in programma il 4 marzo, i giornali si sono pronunciati tutti o quasi contro l’iniziativa. Non era loro interesse che la SSR cessasse di sfruttare spazi commerciali spettanti «naturalmente» alla stampa scritta? Questa tesi, sostenuta con vigore fino a pochi anni fa dall’associazione degli editori (insieme con l’idea fissa che la SSR fosse «la voce dello Stato» e la stampa privata l’unica libera), sembra aver ceduto il posto a una più matura concezione dell’informazione come bene pubblico comune. C'è voluta la crisi per aprire gli occhi agli editori di giornali: prima il calo spettacolare del numero delle testate, praticamente dimezzato (da quattrocento a duecento) tra il 1939 e il 2009; poi la crisi della pubblicità e la dislocazione delle proprietà; ora l’interesse di conservare il finanziamento pubblico delle radio e televisioni regionali private, quasi tutte proprietà dei gruppi editoriali più forti. Non mi illudo che sia crollato tutto il monte degli antichi pregiudizi, anche perché molti editori non vi hanno mai neppure riflettuto, ne fanno solo un calcolo di bottega: ma constato la caduta di un pregiudizio storico, foriero forse di un ripensamento utile al futuro.
Per ora si deve constatare che la logica aziendale ha prevalso su ogni altra considerazione. «Flagrante – scrive Christian Campiche nel suo libretto La presse romande assassinée – è il caso dell’“Hébdo”, il settimanale romando chiuso nel 2016. Per anni la proprietà aveva chiuso gli occhi sui conti in perdita del settimanale, nelle cifre rosse dal 2002. Questo perché Michael Ringier era un signor presidente, la quinta generazione di una dinastia di editori orgogliosi delle loro testate. Bastò che l’editrice di Zurigo si alleasse con Axel Springer e il settimanale fu chiuso in quattro e quattr’occhi: al nuovo PDG del gruppo era bastato dare un’occhiata ai conti. Insomma, “L’Hébdo” è stato soppresso da Berlino, non da Zurigo», scrive Campiche. Domani potrebbe accadere a Neuchâtel e a Sion, dove gli ultimi quotidiani sopravvissuti sono di proprietà del gruppo francese Hersant, che in Francia non gode di buona salute.
Il rischio di essere soppressi «da fuorivia» tocca per ora una minoranza di casi. Ma un altro cambiamento radicale è in atto in tutto il Paese. I ticinesi possono consolarsi di possedere ancora tre quotidiani, ma cantoni importanti come Lucerna o San Gallo non hanno più giornali che si possano definire pensati, diretti e realizzati nelle città il cui nome figura nella testata. A Lucerna sono scomparse progressivamente tre testate risalenti all’Ottocento (il liberale «Luzerner Tagblatt», il conservatore «Vaterland» e le neutre «Luzerner Neueste Nachrichten»): è rimasta la «Luzerner Zeitung», che già provvede ai contenuti di una mezza dozzina di testate minori nella Svizzera centrale, ma la cui... lucernesità è solo formale dacché la redazione è stata fusa con quella del sangallese «St. Galler Tagblatt» e della turgoviese «Thurgauer Zeitung») formando un conglomerato di cui è proprietaria la zurighese NZZ, che ne ha designato addirittura il direttore.
A Losanna, dall’inizio di gennaio, i giornalisti di «24 Heures», «Le Matin dimanche» e «Tribune de Genève» lavorano in un’unica redazione. A Ginevra sono rimasti «le Courrier» e il finanziario «l’Agefi»: ventimila copie di tiratura in due. E parliamo della città in cui hanno sede le Nazioni Unite e molte banche e imprese di rango mondiale, di quella che veniva chiamata «la Roma protestante»! Altri esempi si possono citare per quanto riguarda la Svizzera tedesca, come l’assorbimento del grigionese «Bündner Tagblatt» e della sangallese «Ostschweiz» nel gruppo editoriale super-regionale che edita (ecco un bel titolo comune!) la «Südostschweiz». Questa evoluzione, in apparenza solo consistente nella razionalizzazione della produzione, contraddice le esigenze del federalismo in quanto fa mancare un elemento essenziale per la formazione e il rinnovamento delle élites politiche (che si forma in sede locale, poiché le elezioni alle Camere federali si fanno in circoli elettorali cantonali).
Le conseguenze della perdita di così tante identità periferiche possono essere pesanti non solo per il mondo dell’informazione. Vista da Zurigo, l’evoluzione può parere conforme agli interessi gesamtschweizerisch, cioè comuni a tutto il Paese. Ma la metropoli zurighese tende sempre più a scambiare i propri con gli interessi di tutta la Confederazione, talora guardando ai cantoni e alle regioni come si guarda a fratelli minori per età e un poco ritardati. Se è nell’interesse del Paese intero che l’eccellenza zurighese si affermi, visto che i confronti, oggi, si fanno su scala europea o mondiale, deve preoccupare la presunzione che a Zurigo si facciano meglio gli interessi di tutti. Dove sono i contrappesi che in passato funzionavano? Basilea non sembra più in grado di esercitare questo ruolo. E la Berna federale? Sì, certo: non è la capitale? Ma badiamo ai fatti: i due unici quotidiani bernesi rimasti in vita («Der Bund» e «Berner Zeitung») appartengono a editori zurighesi. (Osservo di passata che questo ragionamento dovrebbe entrare nel giro delle riflessioni su un’operazione in apparenza il massimo della razionalità: la Greater Zurich Area, «l’area della grande Zurigo», cui ha dedicato acute osservazioni Angelo Rossi su«Azione» dell’11 dicembre.
La conclusione è che a lunga scadenza solo un finanziamento pubblico potrebbe correggere la situazione, creando e sostenendo i necessari contrappesi. Ma quanto ci vorrà per essere davvero efficaci contro la deriva? Non è dunque questo il momento di indebolire il servizio pubblico radiotelevisivo. Si obietterà: la SSR è al massimo «regionale», non «cantonale», e non serve ad alimentare la cultura politica locale. È vero se si parla solo della SSR (con l’eccezione maiuscola del Ticino e delle valli grigionitaliane): ma l’abolizione del canone radiotelevisivo non toccherebbe solo la SSR ma anche 13 stazioni televisive e di 20 stazioni radio private cui è devoluta già ora una parte dei proventi del canone e che in futuro potrebbero dover rafforzare il loro ruolo di sostegno alla cittadinanza nei cantoni privi di stampa locale. Le emittenti radiofoniche e televisive locali ricevono già ora 54 milioni di franchi l’anno (ossia il 4 % dei proventi totali del canone). La revisione di legge in corso prevede che otterranno fino a 27 milioni di franchi in più (aumento della quota del canone da 4 % a 6 %). Inoltre, beneficeranno di un maggiore sostegno finanziario per la digitalizzazione dei loro programmi nonché per la formazione e il perfezionamento professionale.
Nato per un accidente storico: il dramma europeo degli anni Trenta del Novecento (si trattava di tenere la Svizzera al riparo dalla propaganda nazifascista), il servizio pubblico radiotelevisivo, domani esteso a tutti i mezzi di informazione, merita di essere difeso per una ragione storica altrettanto importante. È cambiato il nome dell’insidia portata alla vitalità democratica del Paese, non la sua pericolosità e la necessità di un contropotere.
Nota
Il primo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2018.