La Commissione di alta vigilanza della previdenza professionale ha pubblicato i dati (in buona parte già noti) sulle casse pensioni nel 2017. Il forte aumento dei rendimenti patrimoniali, rispetto a quelli dell’anno precedente, ha nettamente migliorato la situazione finanziaria di tutte le casse. Il rendimento dei titoli azionari è praticamente raddoppiato, passando dal 3,6% nel 2016 al 6,9% nel 2017. La buona tenuta di altri settori, benché a livelli bassi, ha permesso un netto miglioramento della situazione.
Per quanto interessa la sorveglianza, si può quindi constatare un chiaro miglioramento del grado di copertura degli impegni delle casse che non godono di una garanzia dello Stato. Il loro grado di copertura è, infatti, passato dal 107,1% nel 2016 al 110,8% nel 2017. Per gli istituti di previdenza con garanzia dell’ente pubblico, il rendimento patrimoniale netto è stato perfino superiore e ha toccato l’8,2%, contro il 3,9% nel 2016. Il tasso di copertura medio di queste casse è quindi migliorato dal 79,7% del 2016 all’82,6%. Mediamente queste casse sono però ancora lontane dal 100% a cui dovrebbero tendere a lunga scadenza. Ciò è dovuto alla struttura particolare delle casse, che privilegiano le rendite e i diritti acquisiti, contando appunto sull’intervento dell’ente pubblico in caso di bisogno. È quanto avviene anche per la cassa pensioni dei dipendenti dello Stato del canton Ticino che, nonostante il miglioramento, chiede ancora un’iniezione di 300 milioni di franchi.
Il miglioramento dello scorso anno non permette però ancora di risolvere il problema strutturale, col quale sono confrontate tutte le casse: quello dell’invecchiamento della popolazione e, quindi, per le casse pensioni, l’aumento dei beneficiari di rendite che è superiore all’aumento (quando c’è) del numero di coloro che pagano i contributi. In pratica, gli assicurati attivi devono così pagare, con i loro contributi, una parte delle rendite dei pensionati. La cosa non è così grave, ma non per tutte le casse, se il fenomeno fosse di breve durata e, in altrettanti tempi brevi, si potessero così recuperare i fondi trasferiti. Comunque questi trasferimenti non rispettano il principio, insito nel sistema svizzero, per cui ogni assicurato si costituisce il proprio capitale di vecchiaia, sul quale calcolare l’ammontare della sua rendita di pensione, a un tasso pure fissato nella legge. Per questo si sente spesso dire che il sistema attuale non è in grado di garantire le promesse di rendita di pensione, al momento dell’inizio del versamento dei contributi.
La citata commissione ha valutato l’ampiezza di questi trasferimenti: si tratta di oltre 7 miliardi di franchi all’anno, nell’ultimo quadriennio. Anche se questo importo equivale a soltanto l’1% circa del capitale di previdenza totale, il perdurare di questa situazione potrebbe provocare tra qualche anno la necessità di ridurre l’ammontare delle pensioni.
L’AVS, che ha una struttura in gran parte distributiva, vi può far fronte con i sussidi dello Stato e con i contributi degli attivi. Le casse pensioni devono invece ridurre costantemente il tasso di conversione per la parte di assicurazione non obbligatoria. La riduzione del tasso di conversione, attualmente del 6,8%, anche per la parte obbligatoria, incontra invece forti opposizioni politiche. Sta di fatto che, secondo la commissione, i rendimenti patrimoniali attuali permetterebbero un tasso di conversione del 4,7%, mentre le previsioni di rendita degli investimenti per i prossimi 20 anni sono inferiori al 2% in media. Al resto provvede il trasferimento dai fondi degli attivi a quelli dei pensionati.
Una parte della soluzione potrebbe essere trovata in ulteriori diminuzioni del tasso di conversione della parte non obbligatoria. Secondo l’Alta vigilanza, l’85% degli assicurati, con il 30% almeno del loro capitale, sarebbero in questa situazione. Ma le casse non fanno volentieri queste operazioni. Ora, dal momento che né la riduzione del tasso di conversione, né l’eventuale aumento dell’età di pensionamento sembrano incontrare il necessario sostegno politico, l’unica porta aperta per evitare la riduzione delle rendite è quella della diminuzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia in rendita, prevista dalla legge. Oggi sarebbe auspicabile il 5% (invece del 6,8%), che sarebbe però politicamente irrealizzabile. Due tentativi (2010 e 2017), molto più modesti, sono caduti in votazione popolare. Si sta preparando il prossimo tentativo con molta prudenza e pensando a come «compensare» questo sacrificio. Se lo si fa a carico delle giovani generazioni, saremo di nuovo ai piedi della scala nel risolvere il problema di fondo dell’invecchiamento.