Biografia

Verio Pini è nato ad Airolo nel 1952. Laureato in lettere all’Università di Losanna, ha completato la formazione con studi di diritto all’Università di Berna. Dal 2003 al 2007 è stato responsabile della Segreteria per la Svizzera italiana, poi della Divisione italiana dei servizi linguistici centrali dal 2007 al 2010. Dal 2008 è segretario della Deputazione ticinese alle Camere federali, funzione che continuerà a svolgere, e dal 2010 è stato consulente per la politica linguistica presso la Cancelleria federale.


La lunga marcia dell’italiano a Berna

Intervista - 100 anni del Segretariato di lingua italiana: con Verio Pini, autore della pubblicazione «Anche in italiano!», ripercorriamo le principali tappe verso la parificazione dell’italiano al tedesco e al francese
/ 15.01.2018
di Luca Beti

Le pareti dell’ufficio di Verio Pini sono nude. Poggiati per terra due quadri, sui tavoli pile di libri e documenti che attendono di essere inscatolati. Già, perché Verio Pini alla fine del 2017 è andato in pensione. Nel 2010 con l’entrata in vigore della legge sulle lingue ha assunto la funzione di consulente per la politica linguistica presso la Cancelleria federale a Berna. In questi sette anni si è prodigato nella tutela delle minoranze, sgomitando con le altre due lingue ufficiali per creare più spazio all’italiano. «Si è trattato, ad esempio, di curare l’applicazione della legge sulle lingue, la revisione di alcuni contenuti dell’ordinanza e soprattutto la ristrutturazione di tutto il Settore linguistico; oppure di seguire da vicino le attività dell’Istituto del plurilinguismo dell’Università di Friburgo», ricorda Pini. «A questa funzione di coordinamento si è aggiunta una vivace collaborazione con una serie di associazioni culturali attive a livello nazionale; collaborazione che, tra l’altro, ha dato vita a varie pubblicazioni, quali Italiano per caso, Italienisch ohne Grenzen, L’italiano sulla frontiera». Per motivi di risparmio si è deciso di sopprimere la figura del consulente per la politica delle lingue nell’Amministrazione. Con la partenza di Verio Pini, l’italianità in Svizzera perde un prezioso alleato, un paladino delle minoranze linguistiche nella Berna federale.

L’italiano è ancora una lingua zoppicante, che rincorre il tedesco e il francese lungo i corridoi e negli uffici dell’Amministrazione federale?
Ci sono degli aspetti che hanno fatto grandi progressi in questi ultimi decenni, con un’accelerazione dal 2010, dopo l’entrata in vigore della legge sulle lingue. E ci sono altri elementi, che non sono zoppicanti, ma che sono legati alla realtà dei numeri. La Confederazione dà lavoro a circa 35mila collaboratori, di cui il nove-dieci per cento è di lingua italiana. Quindi la legge dei numeri fa sì che nella Berna federale si lavori e si discuta in maniera preponderante in tedesco, poi in francese e infine in italiano.

Se da una parte abbiamo raggiunto il plurilinguismo istituzionale, dall’altra, scrive nel suo libro Anche in italiano!, il prossimo obiettivo è quello di migliorare il plurilinguismo individuale nell’Amministrazione federale. È questo il cantiere di oggi, la realtà di domani?
Secondo il nostro principale alleato, il Parlamento, il plurilinguismo individuale è uno degli obiettivi principali a cui l’Amministrazione federale deve puntare in futuro. Per plurilinguismo individuale si intendono le competenze, attive o passive, nelle varie lingue, quindi anche in italiano. Nell’ultima modifica dell’ordinanza sulle lingue del 2014 si chiede esplicitamente ai collaboratori, con l’aiuto del datore di lavoro, di migliorare le conoscenze linguistiche individuali; una situazione che dovrebbe permettere anche ai collaboratori italofoni di discutere e lavorare nella lingua madre. Da una parte perché i colleghi la capiscono, dall’altra perché, grazie al rafforzamento dei Servizi linguistici tedeschi e francesi, sarà possibile redigere parte dei testi in italiano; testi che saranno poi tradotti nelle altre due lingue ufficiali. 

Torniamo alla storia. È solo nel 1917 che l’italiano raggiunge, almeno sulla carta, la parificazione al tedesco e al francese. Dalla fondazione dello Stato federale nel 1848 ci sono voluti quasi settant’anni.
Sì, per settant’anni ci siamo accontentati di un regime minimo: in italiano veniva pubblicata unicamente la raccolta ufficiale delle leggi. Soltanto nel 1917, per il concorso di molteplici fattori, il Consiglio federale decide di creare un Segretariato di lingua italiana presso la Cancelleria e di pubblicare in italiano il Foglio federale svizzero. Una decisione presa anche per rafforzare la coesione nazionale, quando fuori dai nostri confini infuriava la prima guerra mondiale.

E Giuseppe Motta fu uno dei principali artefici di questo primo passo volto a dare alla lingua italiana una certa «dignità». Quale clima politico e culturale si respira in quegli anni a Sud e a Nord delle Alpi?
Bisogna partire da lontano e dalle ineluttabili trasformazioni in atto. A Sud delle Alpi si assiste, da un lato, alla nascita del Regno d’Italia nel 1861 e alla conseguente creazione di una barriera doganale, dall’altro lato, al rafforzamento dello Stato federale, che riduce l’autonomia cantonale. Questa evoluzione crea scompensi e forti ripercussioni economiche, legate in particolare all’esercito centralizzato, ai trasporti e alle poste, e infine all’apertura della galleria del Gottardo nel 1882, con molti pregi ma anche un bagaglio di aspettative disattese. Per questi ed altri fattori, in Ticino la difesa dell’italianità diventa un tema chiave tanto sul piano identitario, quanto su quello economico e politico perché il cantone vuole avere un suo ruolo nel nuovo assetto federale.

E a Nord delle Alpi come si guarda al nuovo Regno d’Italia e all’irredentismo culturale che si respira in Ticino? 
Il Consiglio federale guarda con apprensione verso Sud, poiché dubita delle reali intenzioni austro-ungariche e italiane nei confronti del Ticino, un territorio così stranamente esposto a Sud delle Alpi. In questo frangente, il ruolo di mediatore di Giuseppe Motta, nominato in Consiglio federale il 14 dicembre 1911, fu determinante: seppe mitigare la diffidenza e sciogliere le incomprensioni verso l’Italia e contribuì a evitare che la Svizzera si schierasse apertamente con l’Austria.
Nel giro di pochi anni, a Berna ci si rende conto che bisognava fare un gesto importante per rafforzare la coesione nazionale e per coinvolgere maggiormente la Svizzera italiana. Una sequenza di fattori che favorisce la decisione del Consiglio federale di pubblicare il Foglio federale anche in italiano e pochi mesi dopo di creare le strutture necessarie in Cancelleria.

Dopo questa prima affermazione dell’italianità a Berna, la situazione rimane pressoché immutata fino agli inizi degli anni Sessanta. Come mai si è dovuto attendere quasi mezzo secolo per vedere accolte le rivendicazioni della Svizzera italiana?
Se c’è un relativo silenzio per quanto riguarda la rivendicazione linguistica nei confronti della Berna federale, lo si deve in parte al mutamento delle priorità. La Svizzera italiana – e in parte anche la Svizzera intera – attraversa un periodo economicamente difficile. La crisi del ’29, la disastrosa situazione in cui versava l’agricoltura, le gravi difficoltà economiche legate all’emigrazione dei primi decenni del secolo, come pure il riflusso, negli anni Trenta, di chi era partito, che crea problemi ancora maggiori, e infine il complicarsi della situazione politica internazionale spostano le rivendicazioni sul piano economico. In sintesi, nel periodo tra il primo conflitto mondiale e la fine del secondo, il tema dell’italiano presso le autorità federali passa in secondo piano e l’attenzione di Ticino e Grigioni si sposta su priorità più urgenti.

E quale ruolo ha, a partire dagli anni Trenta, la radio?
In quegli anni, la radio ha un ruolo fondamentale per avvicinare le varie realtà linguistiche e culturali del Paese. È uno strumento nuovo e straordinario, che non ha confini territoriali e che si avvale del gioco delle lingue e della capacità di capirsi al di là della regione. Grazie al coinvolgimento di personalità di spicco, intellettuali, politici, ma anche della società, la radio contribuisce quindi in modo efficacissimo a rafforzare la vitalità della cultura italiana nella Svizzera italiana e a consolidare i suoi legami con Berna e con il resto della Svizzera.

Nel dopoguerra, le rivendicazioni dell’italianità si fanno più insistenti. Con quale principale obiettivo?
Anche in questo caso bisogna considerare la situazione nel suo insieme. Da una parte si volta pagina rispetto alle difficoltà del periodo bellico, si assiste alla ripresa economica e a grandi cambiamenti di società, dall’altra grazie anche ai media si sente il bisogno di essere meglio informati e più in fretta, anche da Berna. Questo bisogno di informazione mette in evidenza le lacune non ancora colmate e rimaste sul tavolo dal 1917. In Parlamento, inoltre, il discorso si fa sempre più tecnico, giuridico, settoriale e così i rappresentanti italofoni nelle due Camere federali sentono con maggior urgenza il bisogno di ottenere testi tradotti in italiano non solo alla fine, bensì durante tutto l’iter procedurale e in particolare durante i dibattiti. Dopo una lotta durata oltre un decennio, nel maggio 1972 si raggiunge il trilinguismo ufficiale completo, nell’iter procedurale e a livello parlamentare.

Nel corso dei cento anni d’italianità nella Berna federale si notano alcuni momenti di accelerazione, che corrispondono spesso con la presenza in governo di un consigliere federale ticinese. Quali ulteriori passi avanti ci dobbiamo aspettare con l’elezione in governo di Ignazio Cassis? 
Tutti i consiglieri federali ticinesi, Motta, Enrico Celio, Lepori, Nello Celio e Cotti hanno avuto un ruolo importante. E sono persuaso che anche oggi, con un consigliere federale di lingua italiana in Governo, ci sarà una dinamica nuova. Tanto più che Ignazio Cassis ha partecipato da vicino agli ultimi sviluppi del plurilinguismo istituzionale: l’adozione della legge sulle lingue e della relativa ordinanza. 

In un recente libro Italiano per caso, di cui lei ha curato la pubblicazione, si ricorda che in Svizzera un residente su otto ha un legame con l’italianità. Non sono quindi solo gli italofoni entro i confini geografico-territoriali del Cantone Ticino e delle valli di lingua italiana dei Grigioni a nutrire grandi attese nei confronti del nuovo consigliere federale, bensì tutta la Svizzera di cultura italiana, anche quella che vive «in italiano» a Nord delle Alpi.
Ignazio Cassis è consapevole della grande vitalità della lingua e della cultura italiane in Svizzera e di questi nuovi equilibri, che danno un profilo diverso alla minoranza italofona. La sua presenza in Consiglio federale darà visibilità all’italianità. Inoltre, nel quotidiano, avrà sicuramente un occhio di riguardo per le minoranze linguistiche nell’Amministrazione federale quando dovrà prendere delle decisioni. Ricordo che la lotta in favore del plurilinguismo individuale dei collaboratori nell’Amministrazione federale, condotta dalla delegata al plurilinguismo Nicoletta Mariolini, necessita del sostegno sia del governo sia del Parlamento. Ma sono persuaso che Ignazio Cassis sarà molto attento anche all’italianità diffusa in tutta la Svizzera: oltre ai 300mila italofoni che vivono nel Cantone Ticino e nelle valli italofone dei Grigioni, vi è infatti un’italianità molto più importante e sedimentata che vive oltre Gottardo. È un’italianità mobile e disinvolta, che parla quotidianamente lo schwitzerdütsch, il francese o altre lingue. Questa nuova realtà richiede un’applicazione più flessibile del principio di territorialità – secondo cui ogni cantone determina la lingua maggioritaria e la lingua d’insegnamento – poiché oggi questo limita la libertà di lingua e frena la vitalità dell’italiano. Questa massiccia presenza di italofoni a Nord delle Alpi rivendica la possibilità per i figli di imparare, oltre alla lingua del posto, anche l’italiano già a partire dalla scuola elementare. È un bisogno a cui dobbiamo rispondere anche per valorizzare meglio la pluralità linguistica in Svizzera.