Ha fatto della «Chiesa in uscita» il ritornello del suo Pontificato. E ama spesso utilizzare l’immagine dell’«ospedale da campo» per descrivere il suo modo di guardare alla presenza dei cristiani tra le mille ferite – non solo materiali – dell’umanità del XXI secolo. Ma il tempo del Coronavirus, la Pasqua 2020 misteriosamente intrecciatasi con il trauma della pandemia che attraversa tutto il mondo, papa Francesco si è trovato viverla chiuso tra le mura del Vaticano. Persino lì dentro è arrivato infatti il Covid-19; con una manciata di casi subito isolati, sì, ma che hanno portato comunque a far innalzare le misure di sicurezza anche a Casa Santa Marta, il residence interno alla Santa Sede dove dall’inizio del suo Pontificato Bergoglio ha scelto di risiedere.
La prima domenica del lockdown – durante l’appuntamento settimanale dell’Angelus, trasformato in una diretta streaming dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico – si è definito lui stesso «un papa ingabbiato», non nascondendo il suo fastidio per questa situazione. Certo, la «clausura» non gli ha impedito di farsi presente in queste settimane. E resteranno nella memoria di tutti le immagini fortissime della sua preghiera in mondovisione la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta e sferzata dalla pioggia. La sera delle parole dure pronunciate da quel pulpito globale: «Avevamo creduto di poter proseguire imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Parole nelle quali la malattia con cui oggi ci troviamo drammaticamente a fare i conti è diventata parabola anche di tante altre contraddizioni, che il virus ha reso solo più evidenti.
Di fronte al Covid-19, però, papa Francesco non gioca a far l’oracolo. Sembra lui stesso ancora in cerca di una strada. Non è per niente entusiasta di una Chiesa cattolica che – dal Successore di Pietro fino all’ultimo parroco di periferia – si trova a confrontarsi con la sfida di bucare lo schermo (di un televisore, di un computer o di una chat, in fondo cambia poco). Sente maledettamente la mancanza di quella fisicità che è insita nel dna del cattolicesimo. In fondo in Italia erano decenni che non si vedevano tante Messe, Rosari, prediche e preghiere sui mezzi di comunicazione. E sui social network non mancano nemmeno risposte brillanti alla sete di spiritualità che accompagna la domanda sul senso che porta con sé questa malattia che ha seminato così tanta morte e dolore.
Eppure è un terreno che papa Francesco vede comunque come insidioso. Dal Vaticano, pur senza invasioni di campo rispetto a scelte che competono alle autorità civili, morde il freno aspettando il giorno in cui le Messe potranno tornare a essere «come si deve». Perché – appunto – per Jorge Mario Bergoglio, cresciuto come pastore tra le strade polverose e colme di umanità delle Villas Miserias di Buenos Aires, la fede non può passare da uno schermo. È qualcosa che ha bisogno dell’incontro con la «carne». Quella dei sacramenti celebrati da una comunità riunita insieme; ma anche quella – per lui assolutamente inseparabile – di chi è povero, di chi soffre, di chi è lasciato a morire non solo in una terapia intensiva ma anche ai margini di una strada. Teme più di tutto il virus dell’indifferenza papa Francesco. E sa bene che una religiosità ridotta a mero servizio «on demand» nei momenti di paura può diventare un alleato fortissimo del ripiegamento su se stessi.
Proprio per questo, però, papa Francesco – al di là del grande affetto della gente – è oggi molto più solo di quanto sembri. Anche in queste settimane è stato attaccato duramente da chi, nel mondo del tradizionalismo cattolico, è perennemente in cerca di complotti e nemici. E non gli perdona dunque di essersi «lasciato imporre» con «la scusa del virus» una Pasqua con le chiese sbarrate. Ma all’opposto nel mondo cattolico c’è anche chi pensa che in fondo «non tutti i mali vengono per nuocere»; e che il digiuno forzato dall’Eucaristia può diventare «un’occasione preziosa» per svecchiare riti che a troppe persone non dicono più nulla. Quanto Papa Francesco sia lontano anche da questo secondo modo di pensare l’ha dimostrato con uno dei suoi gesti: andando a pregare da solo in una chiesa davanti al Crocifisso di San Marcello, invocato nei secoli dai romani per la liberazione dalla peste. Alla fine quel Crocifisso ha voluto che glielo portassero persino in Vaticano.
Ancora una volta, dunque, non ha rinnegato proprio nulla della tradizione della Chiesa. Anzi, il rivoluzionario vestito di bianco vi si aggrappa costantemente nei momenti difficili. Perché lui stesso è figlio delle devozioni popolari molto più che dei circoli teologici che invocano le riforme nella Chiesa.E allora in questa stagione del tutto imprevista del suo Pontificato – con viaggi importanti forzatamente rinviati e senza più bagni di folla in piazza San Pietro – Francesco alla fine ha scelto ancora una volta il terreno che gli è più congeniale: sferza il cattolicesimo sul fronte dell’impegno sociale. Al Venerdì Santo ha portato i carcerati in piazza San Pietro. A Pasqua, dopo aver sostenuto l’appello del segretario generale dell’Onu per una tregua universale, ha scritto ai movimenti popolari aprendo all’idea di un reddito universale per chi non ha un salario stabile. Telefona e invia aiuti nelle province più colpite dal Coronavirus. Ma allo stesso tempo sogna che dalla pandemia esca un mondo rinnovato, nel quale i cristiani siano in prima linea nella battaglia per la giustizia. Quella che non basta un’immagine potente su uno schermo a far trionfare davvero.