Dieci anni or sono, il 17 febbraio 2008, il parlamento riunito a Pristina proclamò l’indipendenza del Kosovo. L’ex provincia serba diventò così un nuovo Stato sovrano, l’ultimo in data sorto in seno alla comunità internazionale. La decisione delle autorità kosovare venne approvata dagli Stati Uniti e dalla maggior parte dei paesi europei, ma incontrò l’immediata opposizione di Belgrado, che per una serie di ragioni storiche, politiche ed economiche, non intendeva separarsi dalla sua provincia meridionale. E la Serbia trovò subito l’appoggio della Russia, suo fedele alleato.
Dieci giorni dopo la decisione del parlamento kosovaro, il 27 febbraio 2008, la Svizzera riconobbe l’indipendenza del Kosovo. In chiaro contrasto con la sua tradizionale prudenza, il governo elvetico agì rapidamente e fu uno dei primi governi al mondo a sostenere il nuovo Stato. La sua attenzione nei confronti di un territorio corrispondente ad un quarto circa della superficie della Confederazione, e sul quale vivevano poco meno di due milioni di abitanti, non sorse all’improvviso. Risaliva alla seconda metà del secolo scorso, in particolare agli anni Novanta, quando la politica del pugno di ferro seguita da Slobodan Milosevic costrinse decine di migliaia di kosovari a fuggire ed a trovare rifugio all’estero. Molti scelsero la Germania, altri optarono per la Svizzera. Oggi, nella Confederazione, vivono circa 170’000 kosovari, corrispondenti al 10% della popolazione del Kosovo. Tra i kosovari accolti in Svizzera negli anni Novanta c’erano anche molti futuri leader politici, che avrebbero avuto un importante ruolo nella guerra contro la Serbia e nell’avvento della indipendenza del Kosovo. L’attuale presidente del Kosovo, Hashim Thaci, si rifugiò in Svizzera nel 1993 e vi rimase 3 anni, durante i quali avrebbe partecipato alla creazione dell’UCK, l’«Esercito di liberazione nazionale» dei guerriglieri kosovari. Insieme a lui, altri futuri leader dell’UCK trovarono pure rifugio in Svizzera.
Dal 1999, dalla fine di tre anni di repressioni e di guerra, la Svizzera è presente in Kosovo con la Swisscoy («Swiss Company»), un contingente dell’esercito di poco più di 200 soldati. La Swisscoy partecipa alla Forza multinazionale per il mantenimento della pace in Kosovo, la «Mission Kosovo Force» (Kfor). Il contingente elvetico è stato deciso dal Consiglio federale sulla base di una risoluzione dell’ONU e, nonostante l’opposizione di forze politiche come l’UDC, la sua presenza in Kosovo è sempre stata rinnovata dal parlamento federale. L’ultima volta nel giugno del 2017. Il mandato è stato prolungato fino alla fine del 2020. Il parlamento ha però chiesto di procedere ad una graduale riduzione del numero dei militari coinvolti.
La Svizzera ha fornito e fornisce molti aiuti al Kosovo. È uno dei principali paesi donatori. Partecipa alla ricostruzione e allo sviluppo del paese con programmi mirati, che tendono a rafforzare le istituzioni democratiche ed a promuovere il dialogo politico, e che si estendono anche a settori come i trasporti, la formazione e la ricerca. La Confederazione è anche uno dei principali paesi investitori, attivo soprattutto nel settore delle medie e piccole imprese. Le difficoltà tutt’ora presenti, come l’insufficienza delle infrastrutture kosovare, la diffusa povertà, l’alto tasso di disoccupazione, la dilagante corruzione e l’incertezza giuridica non offrono, però, molte possibilità di intensificare la collaborazione bilaterale. Nel 2016, la Svizzera esportò in Kosovo merci per un valore di 30 milioni di franchi e dal piccolo Stato balcanico importò beni per soltanto 12 milioni di franchi.
Gli aiuti ricevuti in passato dalle autorità elvetiche e quelli che continuano ad arrivare dalla cooperazione allo sviluppo, senza dimenticare le rimesse della comunità kosovara residente nella Confederazione, permettono comunque alle autorità di Pristina di vedere nella Svizzera un paese amico e protettore. Una situazione che ha consentito il presidente Hashim Thaci, in un’intervista rilasciata al «Blick» l’estate scorsa, di definire «eccellenti» i rapporti del suo paese con la Svizzera.
Il governo kosovaro vorrebbe sviluppare ulteriormente i rapporti bilaterali, ma per questo deve prima far fronte a due grosse ipoteche che gravano sul suo futuro: la prima riguarda la posizione internazionale del Kosovo; la seconda la punizione degli autori dei crimini contro l’umanità commessi nell’allora provincia serba durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo.
Il Kosovo è lungi dall’essere accettato da tutta la comunità internazionale. Soltanto 112 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno riconosciuto. Tra i paesi che non hanno approvato la nascita del nuovo Stato vi sono la Cina e la Russia, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ed anche cinque Stati dell’Unione europea, ossia la Spagna, la Romania, la Slovacchia, la Grecia e Cipro. I motivi invocati sono diversi, ma quello dominante è la paura di veder sorgere un precedente che potrebbe venir invocato dalle minoranze che vivono all’interno delle proprie frontiere nazionali. Per esempio, dai catalani in Spagna e dalle minoranze ungheresi in Romania e in Slovacchia. Per di più, il Kosovo non è ancora riuscito a normalizzare i suoi rapporti con la Serbia. L’applicazione dell’accordo concluso tra i due paesi nel 2013 incontra ancora grosse difficoltà, soprattutto a causa della minoranza serba che vive nel nord del paese e che non accetta di essere integrata nel Kosovo. La normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado viene richiesta dalla comunità internazionale e Bruxelles ne fa una condizione sine qua non per poter far parte della comunità europea.
L’altro grande ostacolo concerne i crimini che sono stati commessi dai membri dell’UCK. Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, ne parlò nel suo libro La caccia. Io e i criminali di Guerra uscito nel 2008. All’inizio del 2011, su incarico del Consiglio d’Europa, l’ex consigliere agli Stati Dick Marty presentò un rapporto in cui venivano denunciati i sequestri, le esecuzioni sommarie e il traffico di organi prelevati sui prigionieri serbi e rom, avvenuti nel Kosovo. Il rapporto coinvolgeva direttamente anche l’ex leader dell’UCK e oggi presidente Hashim Thaci. Provocò vive reazioni, ma non ebbe conseguenze concrete immediate. Soltanto nel 2015, grazie alla pressioni internazionali, il parlamento kosovaro accettò di istituire un tribunale speciale, con sede all’Aja e con la missione di chiarire i crimini denunciati, nonché di individuarne i colpevoli. Il tribunale ha avviato il suo lavoro, muovendosi tra molti ostacoli. L’ultimo in data, il fallito tentativo intrapreso dal parlamento kosovaro, lo scorso mese di dicembre, di sopprimere la nuova istituzione giudiziaria. Nelle prossime settimane dovrebbero apparire le sue prime conclusioni.
La piena accettazione come Stato sovrano da parte della comunità internazionale e l’esame approfondito del suo recente passato, rimangono due condizioni imprescindibili, senza le quali il Kosovo non riuscirà né a completare il suo processo d’indipendenza, né ad intensificare i rapporti con i paesi che già lo accettano, né a stabilire nuove relazioni con gli Stati che oggi non lo riconoscono.