In Cina è caccia all’untore

Corona di ritorno – La pandemia di Covid-19 ha portato l’ostilità verso gli stranieri a un nuovo allarmante livello a cui si aggiunge un pericoloso nazionalismo alimentato dalla propaganda di Pechino
/ 20.04.2020
di Giulia Pompili

Dopo i primi focolai messi in sicurezza, si inizia ad assistere in vari paesi a una «seconda ondata» di contagi da nuovo Coronavirus che viene considerata d’importazione. Man mano che le misure di sicurezza si allentavano, e le persone ricominciavano a circolare liberamente, in Cina, a Hong Kong, in Corea del sud, a Singapore, il numero dei contagiati ha cominciato a salire di nuovo. Se in precedenza chi arrivava dall’estero in questi paesi era costretto alla quarantena di quindici giorni prima di riunirsi alla società, la paura che il contagio potesse diffondersi di nuovo in modo incontrollato ha portato i governi a prendere misure più restrittive. Alzare i muri, sospendere i voli, serrare i confini, però, sono tutte decisioni che scivolano pericolosamente verso un sentimento meno scientifico: la paura dello straniero «untore».

Il 26 marzo scorso, mentre l’epidemia esplodeva in Europa, la Cina ha deciso di limitare i voli internazionali a uno a settimana e ha sospeso tutti i nuovi visti per gli stranieri, tranne alcune rare eccezioni. Il governo di Pechino ha giustificato la misura dicendo che i «contagi domestici» nel territorio nazionale erano praticamente azzerati, ma che era necessario limitare la possibilità che qualcuno riportasse il virus magari tornando dall’Europa, dall’America o dall’Africa.Negli stessi giorni anche la Corea del sud ha preso decisioni molto simili: limitati i voli internazionali e, per chi non possiede un passaporto sudcoreano, una quarantena obbligatoria all’interno di strutture governative. Su diversi media coreani la decisione del governo di Seul è stata criticata: perché un coreano che arriva dall’estero può godere della quarantena fiduciaria, e cioè stare a casa sua, mentre per gli stranieri è obbligatoria una specie di detenzione con il rischio di essere rimpatriati se non si rispettano le regole dell’isolamento?

Questa differenza di trattamento, basata non sul paese di provenienza ma sul passaporto, ha aperto un dibattito interno e il governo sudcoreano ha modificato in corsa alcune norme, proprio per evitare che il contagio fosse associato dalla popolazione alla nazionalità delle persone. Gli stranieri non sono immuni al virus, per questo chiediamo anche ai diplomatici che si trovano fuori sede di non tornare per un po’, ha detto all’inizio di aprile Hua Chunying, portavoce del Ministero degli esteri cinese. E ha aggiunto che l’immunità diplomatica non è un’immunità dal virus, e che servono misure drastiche per contenere i casi «di importazione». Ma sconsigliare i viaggi delle ambasciate è un passaggio pericoloso per un paese, che rischia di mettere in crisi l’intera struttura della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.

Questo atteggiamento del governo centrale di Pechino nei confronti di tutti gli stranieri, a prescindere dal loro status, ha animato anche a numerose iniziative locali di conclamata discriminazione. Sui social network, anche su quelli cinesi, circolano da giorni video e fotografie di locali che chiudono l’ingresso agli stranieri («scusateci, se vi facciamo accomodare rischiamo di chiudere», si leggeva sul cartello all’ingresso di un bar di Pechino). In una serie di vignette pubblicate e poi cancellate da un blog di WeChat – il social network più usato in Cina – gli stranieri venivano rappresentati come immondizia da disinfettare e smistare da agenti con tute antibatteriologiche. «Se la Cina non è mai stata estranea ad atteggiamenti di xenofobia e razzismo, la pandemia di Covid-19 ha portato l’ostilità verso gli stranieri a un nuovo allarmante livello», ha scritto su SupChina Jiayun Feng.

«Fomentati da una serie di notizie che hanno messo in cattiva luce gli stranieri per il loro presunto comportamento irresponsabile durante l’epidemia, i social media cinesi sono stati inondati di commenti d’odio e a volte perfino violenti contro le comunità di expat». Negli ultimi giorni l’attenzione degli epidemiologi cinesi si è concentrata nella provincia del Guangdong, e in particolare nel suo capoluogo Canton, la più grande città portuale del sud della Cina e soprattutto sede di una numerosa comunità di immigrati di origine africana. La situazione a Canton è diventata talmente tesa tra cinesi e immigrati che gli ambasciatori africani in Cina hanno scritto una lettera al Ministero degli esteri di Pechino per denunciare gli atteggiamenti xenofobi e razzisti, tra cui espulsioni, arresti ingiustificati, minacce e sequestri. Secondo varie testimonianze, i cittadini stranieri con regolare permesso di lavoro sarebbero stati sottoposti al test per il Covid più volte e senza giustificati motivi, per esempio contatti con altri contagiati, e nonostante questo sarebbero stati obbligati alla quarantena a prescindere dal risultato del test.

E alla discriminazione si unisce anche un nuovo e pericoloso nazionalismo cinese, alimentato dalla propaganda del governo di Pechino che da una parte vuole dimostrare la superiorità del modello del Partito comunista, e dall’altra cerca di rispondere alle accuse che gli sono mosse dall’estero sulla gestione della crisi.