Qualcuno si sarà accorto, tra i lettori di questi miei articoli che inquadrano l’iniziativa popolare «No-Billag», che non ho mai citato né Facebook, né Twitter, né altri siti sui quali pure circola molta informazione e di cui si dice che la gioventù sia attenta più che ai media tradizionali. Se li usa Trump, e pure i nostri consiglieri di Stato, come mai io non ne tengo conto? La risposta è che di questo tipo di informazione diffido, anzi ritengo – come sostiene l’ultimo libro di Stephan Russ-Mohl: Die informierte Gesellschaft und ihre Feinde (Köln, 2017) – che sia un’insidia per la democrazia. Come l’ottimo professore dell’USI, ritengo che i media «classici» siano ancora da promuovere, anzi: che a loro tocchi l’ingrato compito di certificare la correttezza del mainstream informativo, verificando in particolare se quanto circola in rete sia fake, cioè falso, una manipolazione, o anche solo dipendente da fonti non verificate. Di tale compito si fanno carico ormai molti giornali, radio e televisioni di servizio pubblico, Non è dunque indebolendo uno di questi sostegni, la SSR (sarebbe questa la conseguenza dell’accettazione dell’iniziativa), che si fa un buon servizio alla corretta informazione. I social media non possono sostituire l’informazione professionale.
Stabilito così il principio – e toccato ferro circa il risultato della votazione del 4 marzo – è giusto che il ruolo spettante alla SSR e alle altre emittenti di servizio pubblico sia ripensato. Senza entrare nei particolari, perché sarebbe prematuro, mi pare giusto che la nuova concessione che il Consiglio federale intende dare alla SSR voglia concentrare l’impegno maggiore sull’informazione. È vero infatti che per lo svago, l’intrattenimento (cui peraltro pure si riferiscono le concessioni vigenti) vi sono oggi infinite altre possibilità di accesso, sia pure a pagamento. Già ora, una fetta di programmi che non si possono dire di puro svago (come lo sport) sono dagli organizzatori delle manifestazioni venduti a imprese di telecomunicazione private, per ricevere le quali bisogna pagare a parte. Così pure per il cinema: le stazioni di televisione «classiche» hanno sempre più difficoltà a programmare pellicole recenti e di successo.
Constatando tutto questo non intendo sostenere una vecchia rivendicazione degli editori privati: che alla SSR vada tolto tutto quanto esula dai servizi informativi. Gli stessi giornali, soprattutto i periodici, si reggono su un mix di informazione in senso stretto e di rubriche di ambiente, di moda, di varietà. La SSR svolge inoltre un compito importante di sostegno alla cultura: organizza stagioni musicali, finanzia la produzione di film, incoraggia la formazione professionale alle arti. Sono tutte attività in perdita, che se il servizio pubblico venisse meno le comunità politiche (Confederazione, Cantoni, Comuni) dovrebbero finanziare con le imposte, non bastando in un piccolo Paese come il nostro il mecenatismo privato. È necessario infine disporre di un grado di professionalità all’altezza di certi impegni: guardando ai carri di produzione e agli impianti di ripresa messi in campo per la messa d’inaugurazione della Cattedrale restaurata mi sono francamente domandato: chi potrebbe farsene carico se non la RSI?
Ripensando alla Televisione dei miei esordi come documentarista (bisogna risalire all’inizio degli anni Ottanta del Novecento!) constato l’inevitabile rinuncia a molte ambizioni troppo superiori alle forze di una piccola televisione regionale. Comprendo che molto di quel regionalismo che talvolta mi irrita nella RSI sia la conseguenza di un ripiegamento inevitabile. Ma alcune storture, dovute alla ancora notevole disponibilità di mezzi, si devono poter evitare. Un episodio narrato di recente in pubblico da Aldo Sofia aiuta a capire che cosa intendo. Il giornalista dell’allora TSI aveva prodotto un documentario sul console svizzero a Budapest, Karl Lutz, che durante la guerra salvò dalla deportazione migliaia di ebrei. Avendolo proposto alla TSR (romanda) e alla SF (svizzero tedesca) si sentì dire: grazie, ne facciamo uno anche noi. Si tratterà dunque, anche per la RSI, di dare di più con meno mezzi: l’obiettivo del «piano B» di cui si sente parlare per «il dopo 4 marzo». Ma anche con i tagli si dovrà essere prudenti. Sarebbe un errore ritirarsi ancora di più nel guscio protettore del regionalismo, per esempio sopprimendo gli uffici di corrispondenza. Il Ticino ha tutto da guadagnare se mantiene una squadra a Palazzo federale. Non dev’essere richiamato il corrispondente da Bruxelles, anche se l’UE ci è antipatica: anzi, gli dobbiamo essere grati perché ci ha spiegato, la sera dell’indignazione collettiva per l’ultimo sgarbo usatoci, che non siamo in ballo solo noi nelle scelte di politica estera dell’Unione.
La RSI deve continuare a offrire condizioni di lavoro in corrispondenza delle funzioni (talora specialistiche) che la produzione esige. In cambio va pretesa una professionalità di tipo alto (che non significa: senza errori). Non necessariamente un’inchiesta sulla caccia deve piacere ai cacciatori, né un’insistenza sui preti pedofili essere interpretata come un attacco alla Chiesa. «Se la ricerca è essenziale al giornalismo, in una certa misura la soggettività è implicita» (Le buone regole del giornalismo corretto, ed. Consiglio della Stampa, p. 90). Ma è vero che le regole per i giornalisti del servizio pubblico sono più strette: per esempio essi devono presentare «fedelmente» gli avvenimenti, cioè «in modo corretto», riflettendo la pluralità delle opinioni (art. 23 Cst.; art. 93 della legge federale). Esistono autorità che giudicano il rispetto di queste norme, senza che sia da rimasticare il chewing gum dell’obiettività. Contano le decisioni dei mediatori e quelle dell’AIRR (l’Autorità indipendente di ricorso in materia radiotelevisiva). Per i giornalisti del servizio pubblico valgono, come per i giornali, la «Dichiarazione dei doveri del giornalista» e le pronunzie del Consiglio Svizzero della Stampa. Infine, le raccomandazioni dei Consigli del pubblico. Dovrebbe bastare.
Premesso tutto questo, rimane un bel lavoro quello del giornalista (e in generale del collaboratore al programma) impiegato dal servizio pubblico. La maggiore durata della vita media consente oggi a molti usciti da quella scuola di arricchire con l’esperienza acquisita la società nel suo insieme. In questo senso, davvero, una radiotelevisione di servizio pubblico, specialmente in una piccola realtà come la Svizzera italiana, rappresenta a mio avviso un tesoro da custodire e da migliorare.
Informazioni
Gli articoli precedenti sono stati pubblicati il 15 e il 22 gennaio 2018.