La decisione del Consiglio federale di stanziare 1,3 miliardi di franchi per finanziare progetti nei paesi più poveri dell’Unione europea, il cosiddetto miliardo di coesione, ha suscitato numerose reazioni dei partiti politici, le une favorevoli, le altre contrarie, che annunciano una nuovo scontro in seno alle Camere federali e anche nell’opinione pubblica, se si arriverà ad una votazione popolare.
Prima di soffermarsi sulle reazioni dei partiti e sulle loro motivazioni, conviene però ricordare l’aiuto che la Svizzera ha fornito finora ai paesi dell’Europa orientale. Tutto cominciò nel 2004, quando dieci paesi – otto dell’Europa dell’Est, più Malta e Cipro – entrarono a far parte dell’Unione europea. Rispondendo ad un invito dell’UE di partecipare alla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali presenti in seno all’Unione, il Consiglio federale decise di stanziare un contributo di un miliardo di franchi per finanziare progetti di sviluppo nei nuovi Stati membri. L’aiuto venne spalmato su un periodo di dieci anni. Nel 2007, la decisione del governo venne confermata in votazione popolare, con il 53,4% dei partecipanti. Al miliardo iniziale s’aggiunsero poi 260 milioni di franchi per la Bulgaria e la Romania, diventate Stati membri dell’UE qualche anno dopo, e 45 milioni per la Croazia, ventottesimo ed ultimo paese ad entrare nell’Unione, nel 2013.
Quest’anno, il primo contributo di coesione è arrivato a scadenza ed il Consiglio federale, dopo un lungo periodo, durante il quale le tergiversazioni si sono alternate con i tentativi diplomatici di ottenere in cambio da Bruxelles qualcosa di concreto, ha deciso di rinnovare il contributo per altri dieci anni. Il governo ritiene che quest’aiuto è nell’interesse della Confederazione, un po’ perché rappresenta il prezzo da pagare per accedere liberamente al mercato unico europeo, un po’ perché rafforza le buone relazioni con l’UE, che è il nostro principale partner economico.
L’aiuto previsto è di 1,3 miliardi di franchi, di cui 1,1 miliardi per finanziare nei paesi dell’Europa orientale progetti destinati a migliorare la formazione professionale ed a sostenere la lotta contro la disoccupazione dei giovani, nonché 200 milioni per far fronte ai problemi della migrazione. I soldi non vanno dunque nelle casse dell’Unione europea e, per la Svizzera, rappresentano una spesa annuale di 130 milioni di franchi. L’aiuto dovrà ancora essere approvato dalle Camere federali ed è possibile, se si raggiungerà un accordo tra i partiti, che anche il popolo venga chiamato ad esprimersi, come avvenne nel 2007 per il primo miliardo di coesione.
Le reazioni dei partiti politici non si sono fatte attendere. Senza ricorrere a tante parole, socialisti e verdi hanno approvato la decisione del Consiglio federale. Anche il PPD, nonostante qualche voce interna critica, ha espresso il suo consenso e sostiene la presidente della Confederazione. Doris Leuthard si è impegnata per migliorare le relazioni con Bruxelles e per ripristinare quel clima di fiducia che vigeva prima dell’approvazione dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa, il 9 febbraio 2014. Lo ha fatto cercando di elaborare una strategia di cui fa parte anche l’approvazione del nuovo miliardo di coesione e, probabilmente, anche con l’intento di concludere con un evento positivo il suo anno di presidenza. Per Doris Leuthard, la visita a Berna di Jean-Claude Juncker rappresenta già un piccolo successo, poiché l’ultima visita nella capitale federale di un presidente della Commissione europea, quella di José Barroso, risale addirittura al 2008.
L’opposizione, senza se e senza ma, è arrivata dall’UDC, che ha subito parlato di sperpero di denaro e di regalo di Natale fatto all’Unione europea. È una posizione che non sorprende e che s’iscrive nell’opposizione radicale che questo partito esercita nei confronti dell’Unione europea. Un’opposizione che chiude la porta a qualsiasi accordo con l’UE e che si manifesta attraverso diversi canali. Attraverso l’iniziativa popolare che prevede il primato del diritto interno sul diritto internazionale; attraverso l’iniziativa popolare contro la libera circolazione delle persone, della quale presto si raccoglieranno le firme, e attraverso il rifiuto di un accordo istituzionale, qualunque sia il suo contenuto. Il presidente dell’UDC, Albert Roesti, ha dichiarato di voler combattere il nuovo miliardo di coesione, dapprima in seno al parlamento e poi, se sarà necessario, in votazione popolare. Una votazione, però, che sarà possibile soltanto se verrà cambiata la norma vigente che esclude il referendum finanziario.
Più sorprendente, invece, è stata la reazione della presidente del PLR. Petra Gössi chiede che lo stanziamento del miliardo di coesione sia vincolato ad alcune condizioni, in particolare alla cancellazione della «clausola-ghigliottina». La clausola riguarda gli Accordi bilaterali 1 e prevede che se uno dei sette accordi di questo pacchetto vien denunciato, anche gli altri sei verrebbero abrogati. La rivendicazione ha poche probabilità di venir accolta, perché l’UE ha voluto questa clausola proprio per impedire che la Svizzera possa scegliere tra i sette accordi quelli che ha interesse a mantenere e quelli che, invece, preferisce denunciare. Sarebbe interessante conoscere in merito il pensiero del nuovo ministro degli esteri Ignazio Cassis, esponente del PLR, e scoprire se il miliardo promesso verrà effettivamente legato a specifiche condizioni, soprattutto nel negoziato in vista dell’accordo istituzionale, accordo che Jean-Claude Juncker ha definito di amicizia.
Lo stanziamento del nuovo miliardo di coesione non è esente da critiche. Prima fra tutte quella che riguarda il rispetto della democrazia e dei suoi valori. Non è un mistero che alcuni paesi dell’Europa orientale, come per esempio la Polonia e l’Ungheria, stanno mettendo a dura prova la separazione dei poteri, l’indipendenza della giustizia, la libertà dei giornalisti, i diritti delle minoranze e l’azione delle ONG. Bruxelles sta lottando contro queste situazioni, ma non sembra ottenere molti risultati. Il sostegno svizzero a progetti per migliorare la formazione professionale e per lottare contro la disoccupazione giovanile è importante certo, ma andrebbe accompagnato da pressioni, per lo meno diplomatiche, per ottenere un maggiore rispetto dei diritti fondamentali. In secondo luogo, nella cifra globale promessa sono compresi anche 200 milioni destinati alla gestione dei flussi migratori. Non vien però specificato in quali paesi verranno versati. Non sarà sicuramente nell’Europa dell’Est, visto il rifiuto di quei paesi di accogliere gli immigrati. Non dovrebbero essere nemmeno nei paesi dell’Europa occidentale, considerato che non sono paesi poveri. Quindi, è auspicabile che vengano usati per finanziare progetti concreti di sviluppo in quegli Stati africani che potrebbero contribuire a ridurre il flusso migratorio verso l’Europa.
Le condizioni che caratterizzano il nuovo miliardo promesso andrebbero, quindi, migliorate. L’impegno assunto è importante per la Svizzera, perché rafforza la via bilaterale e la nostra posizione nei confronti dell’Unione europea, che è il nostro principale partner non soltanto nel settore economico, ma anche in quelli della migrazione e della sicurezza. Un’eventuale rinuncia, per qualsiasi ragione si voglia, non sarebbe vantaggiosa. Indebolirebbe la nostra posizione negoziale e renderebbe più difficile il raggiungimento di nuovi traguardi su quella via bilaterale, che rimane la strada maestra nei nostri rapporti con l’Unione europea e che ancora oggi vien sostenuta dalla maggioranza della popolazione.