Il comunista con l’animo del questurino

Figurine d’Italia – È iniziata 25 anni fa la scalata al potere del ministro dell’Interno Marco Minniti
/ 02.10.2017
di Alfio Caruso

Il fisico di Marco Minniti ne anticipa la personalità: scarna, essenziale, austera. Gli abiti scuri accoppiati all’immancabile camicia bianca conferiscono all’aspetto un che d’intimidatorio, che ben s’intreccia con la sua natura di rigido custode dell’ordine, delle regole e delle gerarchie. L’ha dispiegata al meglio nei nove mesi da ministro dell’Interno: contraddicendo la moda imperante, i fatti hanno anticipato gli annunci. L’enorme, lacerante problema dell’immigrazione sfrenata è stato riportato dentro un quadro chiaro di concessioni e divieti. Lo scontro con le Ong sulle norme da rispettare nel soccorso ai barconi dei disperati gli ha conquistato simpatia e consenso in un’opinione pubblica sempre più disorientata fra la voglia di soccorrere e il timore, ingiustificato, di un’invasione. La drastica diminuzione degli sbarchi ha rappresentato il maggior successo del governo Gentiloni e di conseguenza ha spuntato le critiche prevenute di Lega e Movimento 5 Stelle. Quando persino il Papa si è schierato con la nuova impostazione dell’accoglienza, a Minniti è venuta fuori una smorfia mefistofelica, che i suoi collaboratori hanno poi spiegato esser stato un sorriso di appagamento. 

Minniti è nato comunista, di quella scuola legalitaria che cominciò con Togliatti ed ebbe in Napolitano ministro dell’Interno il massimo esponente. Egli è il naturale erede dell’ex presidente della Repubblica, benché i suoi inizi si devono a D’Alema: da presidente del consiglio lo nominò sottosegretario con la raccomandazione di tenere d’occhio i servizi segreti. Era la prima volta di un ex comunista presidente del Consiglio (anche se il Pci si era già trasformato in Pds) e l’accorto D’Alema temeva contraccolpi e crisi di rigetto. Più dell’ingombrante protezione di Cossiga, intermediario con i circoli internazionali, soprattutto massonici; più della marcata neutralità di Cuccia, al tempo (1998) incontrastato demiurgo della finanza italiana, a D’Alema servì il reticolo di conoscenze e di stima che il giovane politico calabrese aveva intessuto partendo dall’impegno locale contro la ‘ndrangheta. Nel suo giudizio poliziotti e carabinieri mai sono scesi dal piedistallo di degni rappresentanti dello Stato, con i quali intessere fecondi rapporti lontani da ogni pregiudizio ideologico.

In tal modo Minniti è diventato nell’ultimo ventennio l’uomo del partito – sia stato il Pds, l’Ulivo, i Ds, il Pd – dentro quel mondo di sbirri e di agenti più o meno segreti, che per mezzo secolo aveva costituito il bau bau della Sinistra, il brodo di coltura di ogni possibile golpe o deriva autoritaria. Un lavorio incessante e distante da qualsiasi ribalta, il cui riconoscimento, tuttavia, non andava oltre la qualifica di sottosegretario. Magari con deleghe pesanti, però senza quell’ultimo passo in grado di attestare la qualità dei risultati e il consequenziale premio. Ed egli sia con Letta, sia con Renzi ha accettato questo ruolo di custode dietro le quinte, interrotto da rare apparizioni con l’immancabile funerea grisaglia, il cranio luccicante, gli occhi spiritati, l’intercalare cadenzato e ritmato da vistosi scuotimenti del capo a darsi ragione da solo, prima ancora che gliela dessero gli altri.

Un solo strappo nella sua carriera di civil servant: con D’Alema, che non gli ha perdonato la crescente autonomia, la legittima pretesa di non condividerne sempre le scelte. D’altronde, nessuno degli antichi collaboratori – Cuperlo, Velardi, Rondolino – ha conservato un buon rapporto con colui che si ritiene il più intelligente del mazzo e però ha inanellato una sconfitta dopo l’altra al punto da meritare su Twitter l’etichetta di «perdente massimo». 

C’è voluto il cataclisma del referendum del 4 dicembre, con la disfatta di Renzi, per vedere Minniti proiettato sul grande palcoscenico. Le prime, stizzite reazioni alla sua nomina a ministro dell’Interno lo davano guardiano dell’armadio degli scheletri per evitare sussulti al titolare precedente, l’inconcludente Alfano, e allo stesso Renzi. Gli sono, invece, bastati pochi mesi e pochi provvedimenti per far capire che l’uomo in nero aveva da sfruttare il consistente patrimonio di esperienze fin lì maturate e soprattutto voleva giocarsela in proprio. I risultati si sono visti, i complimenti si sono accumulati con la prevedibile eccezione di D’Alema prontissimo nel rilasciare velenosi giudizi. Il silenzio, da cui sono stati accolti, ha rappresentato la definitiva conferma dell’irrilevanza dell’ex mattatore e della solidità raggiunta dal suo ex discepolo.

Il successo di Minniti ha destato preoccupazione persino nelle chiuse stanze del Pd. È stato vissuto come un concorrente in più, assiso, inoltre, sulla poltrona, da dove si controllano le elezioni della prossima primavera. E se davvero nessuno vincesse, su quella poltrona potrebbe restare per mesi e mesi fino alla difficile composizione di un nuovo governo o, addirittura, fino alle nuove votazioni. Viaggiatori provenienti dall’interno raccontano che il più preoccupato di tutti sia Renzi, intento oramai a combattere anche le ombre, che potrebbero minacciare l’agognato ritorno alla presidenza del consiglio. Teme il crescente consenso di Gentiloni, sospinto dai buoni risultati dell’economia, frutto per altro delle sue intuizioni. Teme un altro exploit di Minniti, magari un accordo diretto con i capi tribù libici in grado di riportare nei Paesi d’origine i tanti stranieri planati sulle loro coste nel miraggio di un trasbordo in Italia. Teme che si ribadisca la tradizione nostrana che niente sia definitivo come il provvisorio. E che cosa c’era più provvisorio di Gentiloni capo del Governo e di Minniti ministro dell’Interno?