Le rivendicazioni del Comitato d’azione

1. Rielezione immediata del Consiglio nazionale su base proporzionale;

2. Introduzione del diritto di voto attivo e passivo per le donne;

3. Obbligo per tutti di esercitare un’attività lavorativa; 

4. Introduzione della settimana di 48 ore in tutte le aziende pubbliche e private;

5. Riorganizzazione dell’esercito in un’ottica di esercito popolare;

6. Garanzia dell’approvvigionamento alimentare in accordo con i produttori agricoli;

7. Assicurazione vecchiaia e superstiti;

8. Monopolio di Stato sull’import e l’export;

9. Estinzione del debito pubblico da parte dei possidenti.


I tre giorni che sconvolsero la Svizzera

Anniversario - Esattamente cent’anni fa lo sciopero generale rischiò di far precipitare il paese in una guerra civile
/ 12.11.2018
di Orazio Martinetti

Sull’orlo della guerra civile: cent’anni or sono la Confederazione rischiò di precipitare nell’abisso di un conflitto fratricida, com’era già accaduto nel 1847 con il «Sonderbund». Ma questa volta lo scontro sarebbe avvenuto non tra due eserciti, ma tra le truppe comandate dal generale Wille e i lavoratori, con conseguenze inimmaginabili.

Lo sciopero generale, preceduto da una giornata di protesta il 9 (sabato), si svolse dal 12 al 14 novembre del 1918, con epicentro nei centri urbani e industriali della Svizzera tedesca. La grande guerra era terminata l’11 con l’armistizio firmato a Compiègne, comune francese situato nel dipartimento dell’Oise; tra Italia e Austria-Ungheria i cannoni tacevano già dal 4 novembre. L’atmosfera rimaneva però arroventata; voci di moti insurrezionali in atto nelle potenze sconfitte, soprattutto in Germania e in Austria, mantenevano esplosiva la tensione sociale; inoltre in quei giorni cadeva il primo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, l’ascesa al potere dei bolscevichi, la costituzione dei Soviet. Dall’Est arrivava un vento nuovo, portatore di promesse e di speranze per le classi subalterne di tutto il continente.

La proclamazione dello sciopero avvenne in modo inatteso; spesso, nei mesi precedenti, il Comitato d’Azione di Olten, la cabina di regia dell’agitazione, aveva alzato la voce per farsi ascoltare dalle autorità federali. Ma in quei giorni, sia Robert Grimm (il carismatico leader sindacale) sia Felix Calonder (per quell’anno presidente della Confederazione) ritenevano che il peggio fosse passato e che si potesse continuare sulla via del dialogo e della concertazione. In realtà, i vertici dell’esercito e la borghesia impaurita dalle gesta di Lenin la pensavano diversamente. Agli operai e ai sindacati occorreva impartire una severa lezione, se del caso ricorrendo alle armi. 

La mobilitazione delle truppe produsse l’effetto sperato: i militi, provenienti soprattutto dai cantoni rurali, occuparono gli snodi strategici, interruppero le comunicazioni telegrafiche e sostituirono i macchinisti con personale in grigioverde; al terzo giorno, per timore di un bagno di sangue, il Comitato di Olten decise di interrompere l’agitazione. La decisione fu accolta dalle frange più intransigenti come una resa, una capitolazione, una bruciante sconfitta che ricacciava nel limbo tutto il movimento operaio.

Ma come si giunse a quel drammatico confronto, per quali vie? Per comprenderne cause e ragioni bisogna tener presente il clima socio-economico che si era creato nel paese dopo l’inizio delle ostilità. Nell’agosto nel 1914 nessuno pensava che il conflitto sarebbe stato lungo e devastante; perfino la Germania imperiale riteneva possibile soggiogare la Francia repubblicana entro Natale. Le operazioni presero invece un’altra piega, e ben presto le economie belligeranti dovettero attrezzarsi per alimentare un fronte ch’era sprofondato nel fango delle trincee.

Così avvenne anche per l’economia elvetica, i cui canali d’approvvigionamento iniziarono a contrarsi, soprattutto dopo l’entrata in guerra del regno d’Italia (maggio 1915). Il rapido aumento dei prezzi (cereali, carbone, latte) e le cicliche mobilitazioni parziali avevano impoverito gli operai e gli impiegati attivi nei centri industriali e nelle principali città, mentre le grandi fattorie dell’Altopiano potevano beneficiare delle ordinazioni dell’apparato militare. L’economia di guerra aveva approfondito il solco tra chi traeva vantaggi dalle commesse belliche della Germania (siderurgia, metalmeccanica, orologeria, chimica) e chi invece doveva accontentarsi di un magro salario, vieppiù eroso dall’inflazione. 

Le agitazioni, rimaste sotto traccia nella prima parte della guerra, ripresero nel 1917, per culminare nei disordini novembrini di Zurigo (4 morti). L’idea di introdurre un servizio civile obbligatorio universale nel febbraio del 1918 suscitò l’indignazione dei sindacati e delle sezioni socialiste. Nel contempo montava la protesta sociale nei centri urbani, animata da gruppi spontanei femminili, maestranze metalmeccaniche (Winterthur), tramvieri (come a Lugano nel mese di luglio) e bancari (Zurigo, fine settembre). A quest’ampia ondata di scioperi e di concentrazioni di piazza, le autorità risposero mobilitando reggimenti ritenuti fedeli e sordi alla propaganda degli scioperanti. 

All’acuirsi delle disuguaglianze s’aggiunsero le divisioni politico-culturali che avevano lacerato le comunità linguistiche nel periodo d’anteguerra: un’aperta germanofilia della Svizzera tedesca contro una non meno decisa francofilia presente nella pubblicistica romanda e ticinese. «Oggi – annotava nel 1917 l’avvocato conservatore Giuseppe Cattori – le simpatie del Ticino per l’Italia sono più ardenti che in passato, perché combatte, colle sue alleate, in favore d’una idea che varca i confini nazionali». Da un lato, insomma, un’ammirazione per il Kaiser, dall’altro un’accesa simpatia per la Terza Repubblica francese. I romandi non avevano approvato la promozione di Ulrich Wille a comandante supremo dell’esercito, ufficiale imbevuto di marzialità prussiana e amico di Guglielmo II. Il sospetto di connivenza tra gli stati maggiori dei due paesi divenne poi certezza in occasione di un «affare» venuto alla luce nel gennaio del 1916: si era infatti scoperto che due colonnelli addetti al servizio informazioni, Karl Egli e Friedrich Moritz von Wattenwyl, avevano intrattenuto una corrispondenza segreta con le gerarchie tedesche.  Un altro caso delicato si verificò nel giugno del 1917, allorché Robert Grimm e il capo del Dipartimento politico, Arthur Hoffmann, proposero a germanici e russi i loro buoni uffici per chiudere il fronte orientale con una pace separata. Anche qui l’opinione pubblica romanda e ticinese insorse, ravvisando in questa manovra una crassa violazione della neutralità. La vicenda costrinse Hoffmann alle dimissioni: fatto che permise alla Romandia di affiancare a Camille Decoppet un secondo rappresentante di lingua francese, nella persona di Gustave Ador.

Lo sciopero generale si svolse complessivamente nella calma, tranne che a Grenchen; nella cittadina solettese, al terzo e ultimo giorno di cortei, la truppa fece fuoco sulla folla uccidendo tre giovani orologiai (in precedenza, il 10 novembre, un milite era stato colpito a morte sulla Fraumünsterplatz di Zurigo nel corso di violenti tafferugli). Al Sud delle Alpi l’appello ad incrociare le braccia giunse svigorito, per una molteplicità di ragioni, che andavano dalla debolezza del settore secondario all’instabilità delle comunicazioni, dalla diffidenza antiteutonica alle insufficienze organizzative di uno schieramento politico-sindacale ancora prigioniero di logiche locali.

La brusca interruzione dell’agitazione gettò nello sconforto gli elementi più radicali, tra cui il futuro Consigliere federale Ernst Nobs, di cui divenne celebre l’esclamazione «c’è da piangere». Le reazioni dei ceti dominanti e delle cerchie militari non si fecero attendere. Il timore di un colpo di mano ispirato dai bolscevichi indusse il blocco borghese ad istituire un servizio d’ordine privato (guardie civiche); parallelamente la giustizia militare mise sotto accusa 3500 scioperanti, in gran parte ferrovieri, nonché i principali artefici dello sciopero. Robert Grimm approfittò della pena inflittagli (sei mesi di detenzione) per scrivere una storia della Svizzera in un’ottica marxista.

In quell’anno, tuttavia, l’insidia peggiore non arrivò dalle piazze in fermento, ma dall’epidemia influenzale, la famigerata «spagnola» che tra l’estate e l’autunno fece quasi venticinquemila vittime. Anche la grippe, di fatto una pandemia che percorse tutti i continenti con la furia di una tromba d’aria, divenne motivo di polemiche e di recriminazioni, con l’esercito che accusava il movimento operaio di aver favorito la propagazione del contagio attraverso i continui assembramenti.

Le agitazioni ripresero anche nei mesi successivi, a Zurigo e Basilea, ma senza dar luogo ad iniziative di portata nazionale. Rimaneva in sospeso il catalogo delle rivendicazioni, i nove punti elencati dal Comitato di Olten. Il sistema proporzionale, già approvato dal popolo, fu applicato alle elezioni del 1919, permettendo ai socialisti di raddoppiare i seggi; la settimana lavorativa di 48 ore ebbe un percorso più accidentato, così come l’AVS (1948) e il voto alle donne (1971). Gli anni ’20 furono ancora contraddistinti da un’elevata conflittualità sociale. 

Come leggere lo sciopero generale, questo «unicum» nella storia svizzera, a cent’anni di distanza? Nella prima metà del Novecento prevalse la tesi del «complotto bolscevico», fortunatamente sventato dall’esercito e dalla determinazione del governo; nel secondo dopoguerra s’impose la «tesi dell’impoverimento», secondo la quale furono le gravi ristrettezze economiche in cui versavano larghi strati della popolazione la causa prima della protesta. Negli ultimi anni gli storici hanno allargato lo sguardo e integrato la documentazione esistente con nuovi materiali provenienti da archivi pubblici e privati. L’interpretazione monocausale (solo economica o solo politica) è stata abbandonata per privilegiare un approccio diversificato, multilivello (locale, nazionale, europeo) e non deterministico. Ma per un bilancio meno sommario bisognerà attendere la fine delle commemorazioni.