I soldi nel pallone

Calcio e economia - L’ultima grande operazione commerciale nel mondo del calcio è stato l’acquisto di Cristiano Ronaldo da parte della Juventus. Un affare milionario in un mondo sportivo sempre più orientato a strategie imprenditoriali
/ 18.03.2019
di Marzio Minoli

È stato il tormentone estivo del 2018. Cristiano Ronaldo passa dal Real Madrid alla Juventus. Il 34enne ha firmato un contratto quadriennale da 30 milioni di euro, netti, all’anno, mentre alla società spagnola sono andati 105 milioni di euro.

Come spesso accade, questo genere di operazioni solleva aspre critiche. L’ammontare di soldi in ballo viene ritenuto eticamente sbagliato, trattandosi di calciatori. Ma le cose devono essere viste al di là del mero aspetto sportivo. L’operazione CR7, questo il nome del marchio commerciale di Cristiano Ronaldo, va ben oltre il semplice gioco del calcio.

La Juventus attualmente è in 11.esima posizione nella classifica dei club con i maggiori fatturati, prima delle italiane con circa 400 milioni di euro all’anno. A primeggiare ci sono Real Madrid e Barcellona, tutte con circa 700 milioni, seguono poi Manchester United, Bayern Monaco, Manchester City, Paris Saint Germain, Liverpool, Chelsea, Arsenal e Tottenham. A fornire le cifre il rapporto annuale della società di consulenze Deloitte che pubblica il Football Money League (https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/uk/Documents/sports-business-group/deloitte-uk-deloitte-football-money-league-2019.pdf)

L’aspetto interessante è capire da dove vengono i soldi. Nel pensiero comune si ritiene che la fonte primaria siano i diritti televisivi. Rimanendo alla Juventus in effetti è così. Dei 400 milioni di fatturato il 60% circa proviene proprio dai diritti televisivi. Il discorso cambia radicalmente se invece si guardano le prime posizioni della classifica della Money League. Infatti la voce «ricavi da diritti televisivi» in media è un terzo del totale. Ecco quindi che si delinea quella che è la nuova strategia dei grandi club. Puntare su quello che viene definito il merchandising e i proventi commerciali in generale. Magliette, gadget e chi più ne ha più ne metta stanno diventando una delle maggiori fonti di entrate per i grandi club. Una voce che conta oramai per quasi la metà degli introiti, o, come nel caso del Bayern di Monaco, si arriva fino al 60%.

Queste cifre ben fanno comprendere quindi l’importanza dell’«operazione Ronaldo» in casa Juventus. Il campione portoghese può contare su 330 milioni di follower sui vari social media, come Twitter, Facebook o Instagram e la società torinese ha già guadagnato 10 milioni di nuovi seguaci solo con l’arrivo di CR7. Oltre a questo bisogna tenere in conto di tutto quello che viene venduto con il nome «Ronaldo» associato a «Juventus» e il fatto che gli sponsor fanno la fila per poter mettere il loro nome o il loro marchio accanto al nome del portoghese.

Coinvolgere il tifoso in quella che oggi viene chiamata con un termine inglese, experience. Cosa vuol dire? Il tifoso non è più semplicemente colui o colei che entra allo stadio e guarda la partita, oppure sottoscrive l’abbonamento per vederla in tv. Oggi le persone vogliono essere, appunto, coinvolte. Vogliono far parte di un qualche cosa, e nulla come la squadra del cuore può alimentare questo sentimento. Ecco dunque l’ultima trovata, far partecipare i tifosi alle decisioni in seno alle società.

In Spagna il modello è già collaudato. Real Madrid e Barcellona sono tra maggiori rappresentanti di questa forma di co-proprietà. Il Real ha circa 90’000 soci, il Barcellona 170’000. E questi possono partecipare alle assemblee ed eleggere il presidente. Non si tratta di azionariato popolare. In questi casi il socio non partecipa al capitale sociale.

Una strada che anche Paris Saint Germain e Juventus hanno deciso di seguire, ma utilizzando la tecnologia. Infatti, grazie ad una piattaforma di cryptovalute, i tifosi possono acquistare monete virtuali e con le stesse avere accesso ai diritti di voto per decidere, ad esempio, il colore delle maglie. Lo scopo come detto è chiaro: coinvolgere il tifoso il più possibile. E si sa che se la gente è coinvolta in qualche cosa, è anche più disposta a spendere in prodotti legati a quel marchio.

Un cambio radicale quindi nel modello d’affari delle squadre di calcio. Il lato commerciale diventa sempre più preponderante rispetto agli incassi nei giorni delle partite oppure degli introiti TV. E qui entra in gioco un altro elemento che garantisce ulteriori entrate: lo stadio di proprietà.

Poter possedere la struttura sta diventando sempre più fondamentale. A dirlo a chiare lettere l’amministratore delegato del Liverpool, Peter Moore. Lo storico stadio, Anfield Road, infatti non può essere sfruttato a dovere. Ad esempio, non può ospitare concerti, visto che i camion che trasportano il materiale non possono entrare a causa degli accessi troppo stretti. Ma non solo. La proprietà garantisce anche il pieno controllo di tutto quello che è correlato alla partita, dalla ristorazione agli eventi per gli ospiti importanti. Importante diventa l’offerta per le aziende, che pagano fior di soldi per poter invitare i loro clienti nelle zone VIP degli stadi, ad assistere alle partite in tutta comodità, magari cenando. Far vivere loro la già citata experience.

«Oggigiorno per competere con i grandi club bisogna avere un fatturato di almeno 500 milioni di sterline e gli eventi organizzati negli stadi, fuori dalle partite di calcio, sono una voce importantissima sulla quale poter contare» a dichiarato Moore al «Financial Times». E allora sotto a costruire stadi avveniristici, come il nuovo stadio del Tottenham, la squadra basata a nord di Londra e che fa parte delle top 6 del campionato inglese. Un investimento da quasi 1 miliardo di sterline per poter avere un impianto con tanto di terreno retraibile che permette di trasformare un campo da calcio in uno da football americano, dove ospitare due partite all’anno di NFL, la lega professionistica americana di football americano.

Ma in tutto questo il lato sportivo viene quindi messo in secondo piano? Non proprio, ma non sempre è la priorità. L’acquisto di Ronaldo è stato «venduto» come una mossa per permettere alla Juventus di riuscire a vincere la Champions League, ma l’impressione è che l’importante non sia vincere, ma mantenersi tra le grandi, costantemente. Questo è anche il pensiero di Emilio Butragueño, ex campione del Real Madrid, ed ora alto dirigente della squadra spagnola: «La società deve garantire la stabilità dei suoi conti, che non siano troppo condizionati dai risultati sportivi».

Insomma, bisogna costruire un marchio, una filosofia, un’«idea« vincente che duri nel tempo e che attiri sempre più tifosi, o per meglio dire, dando un calcio al romanticismo, consumatori.