I lunghi anni Sessanta

Il ’68 in Svizzera - In quale contesto storico matura nel nostro paese la protesta giovanile e studentesca? Un’analisi in due tappe
/ 14.05.2018
di Orazio Martinetti

Sul ’68 – sulla sua importanza, sul suo significato, sulle sue conseguenze –, i giudizi non sono mai stati concordi. Chi cinquant’anni fa lo condannava, lo condanna tuttora come capriccio di giovani viziati; chi allora lo esaltava, continua ad esaltarlo come una stagione formidabile. Non fu una rivoluzione nel senso classico del termine. Fu una ribellione, un colpo di maglio che rompeva con un certo passato, nelle famiglie, nei partiti, nelle scuole (dalle medie superiori agli atenei), nella Chiesa, nei costumi, nella stampa e nella cultura. Meno nell’universo del lavoro, giacché i protagonisti furono innanzitutto studenti, in particolare gli universitari. La saldatura con gli operai non avvenne nella misura auspicata, salvo che in Francia (in Italia fu determinante l’«autunno caldo» dell’anno successivo).

Anche sull’interpretazione del ’68 come cesura del corso storico, i pareri divergono. Oggi la storiografia tende a collocare quella densa stagione nell’alveo degli anni ’60, decennio a sua volta da inserire nel «trentennio glorioso» del secondo dopoguerra: sviluppo economico, ripresa demografica, incremento dei consumi, progressiva democratizzazione degli studi.

Il ’68 fu un fenomeno globale, dagli Stati Uniti all’Europa; globale e urbano, ma con ricadute anche sul piano locale, in piccoli centri come Locarno, dove suscitò scalpore e aspre discussioni l’occupazione dell’aula 20 della magistrale. Segno che l’elettricità che sprigionava, amplificata dalla televisione, seduceva tutti, anche i giovani che vivevano nella provincia. Improvvisamente, nei salotti delle case irrompevano le terribili immagini della guerra del Vietnam, le rivendicazioni del Terzo Mondo, le proteste dei neri americani e, all’est della cortina di ferro, la repressione della Primavera di Praga. I giovani divennero protagonisti e, insieme, una categoria sociologica a sé, in grado di ritagliarsi un relativo spazio autonomo nella società, sia come forza di contestazione, sia come potenziale acquirente dei prodotti dell’industria culturale (musica, cinema, moda).

La Svizzera non fu certamente l’epicentro del movimento. Paese ancora retto da strutture arcaiche, marcatamente patriarcali, ancora nel 1959 aveva rifiutato il suffragio femminile, con una percentuale del 67 per cento (solo i cantoni di Ginevra, Neuchâtel e Vaud l’avevano approvato). Il paese, in quel torno di tempo, preferiva non aderire alle istituzioni e agli accordi che si andavano profilando nel continente, come la Comunità europea, le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa. La Svizzera era e voleva rimanere un’isola neutrale, ma le sue scelte apparivano, soprattutto nei cantoni romandi, miopi e impermeabili alle sollecitazioni esterne. Era un clima, favorito dalla guerra fredda, che rinchiudeva ancora il dibattito politico nel recinto angusto della «difesa spirituale» congegnata negli anni 30 per contrastare l’infiltrazione nazi-fascista. La ripresa economica, fondata su un apparato produttivo rimasto intatto, bastava a tacitare le voci critiche. In fondo la Confederazione non aveva mai conosciuto una prosperità simile. Tessili, alimentari, chimica, metalmeccanica, orologeria erano branche che anno dopo anno registravano tassi di crescita invidiabili, sorrette da un efficiente settore bancario. L’altro settore trainante era l’edilizia, il genio civile incaricato di colmare i ritardi in campo infrastrutturale: strade e autostrade, ponti e gallerie, e poi mastodontici impianti idroelettrici nel cuore delle Alpi, con le relative condotte forzate. Un’altra fonte promettente era l’energia d’origine nucleare, che però richiedeva notevoli investimenti e un elevato capitale di conoscenze. La prima pietra fu posta nel 1953 con l’inaugurazione del CERN (Centro europeo di ricerca nucleare). Il cammino fu tuttavia lungo: solo nel 1968 entrò in funzione il reattore sperimentale di Lucens (peraltro subito chiuso l’anno successivo per guasto).

La rapida crescita economica del dopoguerra genera anche inquietudini e interrogativi sul senso del progresso e sui fini ultimi della tecnica. La diffusione su larga scala della catena di montaggio, con la segmentazione delle mansioni che comporta, riporta all’ordine del giorno la questione dell’alienazione del lavoro umano, ormai ridotto a semplice rotella della grande macchina. Sarà uno dei temi più discussi dalla sociologia, sulle orme delle ricerche del francese Georges Friedmann, autore, nel 1956, del volume Le travail en miettes [Il lavoro in frantumi].

L’altro argomento che più turba l’opinione pubblica è l’energia atomica, il suo impiego sia in campo militare che civile. Il proposito di dotare l’esercito svizzero di un armamento atomico innesca un acceso dibattito, che nel biennio 1962-1963 sfocia nel voto su due iniziative popolari. La prima esigeva un divieto totale; la seconda, più blanda, chiedeva di demandare al popolo l’ultima parola. L’esito delle due consultazioni fu favorevole all’esercito, ma ugualmente non se ne fece nulla, dato che nel frattempo si era preferito puntare su altri sistemi d’arma, meno costosi e meno tecnologicamente impegnativi. Inoltre, nel 1964, era scoppiato lo scandalo dei Mirages, l’acquisto di cento velivoli da guerra dalla Francia. La deliberata sottostima dei costi indusse il parlamento a ritirare la cambiale in bianco che fino a quel momento aveva concesso ai vertici militari.

Diverso fu invece il destino del nucleare civile, che poté proseguire il suo cammino fino all’incidente di Lucens; da quell’anno le marce antinucleari si intensificarono, per toccare il culmine nel 1975 con l’occupazione dei terreni di Kaiseraugst, località prescelta per edificare una centrale atomica.

Sul piano politico, regnava la concordia, o meglio la «Konkordanzdemokratie» fondata sulla formula magica varata nel 1959, ovvero due liberali-radicali, due conservatori, due socialisti ed un esponente del partito dei contadini e degli artigiani. Con la formula 2+2+2+1 terminava ufficialmente la lunga stagione dell’opposizione socialdemocratica al dominio liberale; si concludeva insomma un cammino i cui primi passi risalivano al 1935 (con l’adesione del partito alla difesa nazionale), al 1937 (pace del lavoro tra sindacati e padronato), al 1943 (ingresso del primo socialista – Ernst Nobs – nella compagine governativa).

L’integrazione del PSS nell’esecutivo federale, e in molti esecutivi cantonali, equivaleva ad includere nel consesso governativo tutti i principali partiti, che assieme raccoglievano l’80-85 per cento dei consensi. All’opposizione rimanevano soltanto le frange estreme di destra e di sinistra. L’anticomunismo provvedeva inoltre a cementare l’unità nazionale.

Crescita, aumento dei salari e dei consumi, tempo libero e voglia di divertirsi. Dal mondo anglosassone giungevano mode e stili musicali che rompevano gli schemi e che inacidivano il dialogo tra le generazioni. Erano i segni del «progresso». Che però non si presentava sotto le fattezze di una figura piana e liscia, ma come un poliedro le cui facce potevano anche nascondere lati oscuri e potenzialmente autodistruttivi, come si capirà con la diffusione delle droghe naturali e sintetiche.

Ma progresso significava anche urbanizzazione, declino delle tradizioni legate alla civiltà rurale, rimescolamento della struttura sociale. L’arrivo di migliaia di operai stranieri, soprattutto italiani, ridestò l’antico spettro dell’«Überfremdung». Ai bordi delle città, nel frattempo diventate agglomerati, spuntarono palazzi e casermoni, eretti per ospitare le nuove maestranze chiamate ad alimentare il miracolo economico svizzero. Agli occhi delle cerchie conservatrici tutto questo finiva per intaccare le antiche usanze popolari e per minare lo spirito patriottico («Volk und Heimat»). Paure, insicurezza e diffidenza verso il pianeta «Gastarbeiter» portarono nell’area zurighese alla fondazione, nel 1961, della «Nationale Aktion gegen Überfremdung von Volk und Heimat», passo iniziale di una campagna antistranieri che avrebbe segnato i decenni successivi. Nel 1965 fu lanciata la prima iniziativa antistranieri (poi ritirata); nel 1968 la seconda, detta «di Schwarzenbach», che invece giunse alle urne del 1970 (respinta, sia pure di misura).