Fra Usa e Cina guerra fredda sempre più fredda

Newsletter della pandemia – Mentre l’America si sta chiedendo quale paesaggio uscirà dall’emergenza sanitaria, Pechino inizia ad affrontare una nuova sfida: quella di costruire un Welfare moderno per i suoi milioni di disoccupati
/ 27.04.2020
di Federico Rampini

L’America affronta la pandemia… politicizzandola. Si divide più che mai. E accentua il clima da guerra fredda nei confronti della Cina, che reagisce con un nazionalismo altrettanto ostile. Terza settimana di rialzo poderoso della disoccupazione negli Stati Uniti: altri 4,4 milioni di americani hanno perso il posto in questi ultimi sette giorni, il che porta il totale a 26 milioni di senza lavoro. Il rialzo del prezzo del petrolio non è dovuto tanto a una schiarita nelle prospettive della crescita globale, quanto al riacutizzarsi delle tensioni nel Golfo Persico tra Stati Uniti e Iran. Poiché non c’è mai un limite al peggio, non escludiamo che alla pandemia si aggiungano conflitti militari.

Alcuni Stati Usa governati dai repubblicani hanno una tale fretta di riaprire l’economia, che scavalcano perfino Donald Trump. Il presidente prende le distanze dal governatore della Georgia che riapre subito anche i parrucchieri, centri di bellezza e boutique che fanno tatuaggi. La fase due, l’uscita graduale dalle restrizioni anti-contagio, spacca le due Americhe. I media progressisti puntano il dito contro i potentati della destra economica (famiglia Koch), per il loro ruolo nell’organizzare, sobillare e finanziare le proteste di piazza contro il lockdown. Hanno colpito tutti le immagini delle manifestazioni di piazza nel Missouri contro la governatrice democratica: per contestarla si è vista gente armata fino ai denti, che sventolava bandiere a stelle e strisce.

La tentazione inevitabile è liquidare questi fenomeni come un macrabo folclore dell’estrema destra, in coerenza col negazionismo climatico e il disprezzo di Trump verso la scienza. Però c’è un dato più importante: mezza America si sente costretta a chiusure e restrizioni eccessive pur avendo un contagio ridotto, subisce le reclusioni forzate come se fossero fatte su misura per New York. La provincia profonda si sente protetta dal suo stile di vita: l’American Way of Life fatta di sobborghi a bassa densità di popolazione, villette unifamiliari ben distanziate, pendolarismo in auto anziché sui mezzi pubblici.New York, globalista, multietnica, promiscua, festaiola, è un’aberrazione e la provincia conservatrice non vuole pagare per uno stile di vita che non le appartiene. Le due Americhe sono due universi di valori che questa pandemia rende ancora più distanti.

Donde la spinta per riaprire, che viene da zone dove il disastro economico rischia di essere molto superiore a quello sanitario. La geografia del virus incrocia la politica, i modelli valoriali, gli stili di vita e le scelte abitative. Il popolo americano ha una mobilità elevata. Nelle crisi, chi fa bancarotta o viene licenziato a volte cambia vita, vende la casa (se non gliel’hanno già pignorata) e trasloca in un altro Stato. Quale paesaggio emergerà da questa pandemia+depressione? Un’indicazione potrebbe venire dalla lista degli Stati Usa che vogliono vincere la gara delle riaperture anticipate: per lo più sono nel Sud e sono governati da repubblicani, come Georgia, South Carolina, Tennessee, Florida, Alabama e Mississippi. Sono tutte zone meno colpite dal contagio, anche perché meno densamente popolate rispetto a New York.

Nel bilancio finale di questo disastro vedremo forse emergere una diversa gerarchia geografica, economica, perché il modello della megalopoli farà fatica a rilanciarsi.Nella fuga dalle grandi città (anche Manhattan si è parzialmente svuotata, chi ha la seconda casa si è rifugiato al mare o in campagna) c’è qualcosa che può diventare permanente. La fine di un modello dove la tecnopoli ad alta densità, multietnica, culturalmente vivace, aveva una marcia in più.Altri Stati dell’America «profonda» sono invece vulnerabili ad un altro shock, quello petrolifero. Magari hanno pochi malati di virus, ma la catastrofe energetica li impoverisce in modo più che proporzionale: nell’elenco i più dipendenti dal petrolio sono Wyoming, Aalaska, Oklahoma, North Dakota e West Virginia. Se la cava un po’ meglio il Texas perché negli ultimi decenni ha costruito un’economia molto più diversificata.I repubblicani cominciano a parlare di bancarotte pubbliche: degli Stati Usa e delle amministrazioni municipali.

Ovviamente pensano soprattutto a New York, la situazione più disastrata, dal punto di vista sanitario e quindi anche finanziario. Le casse municipali sono già al limite della bancarotta, il sindaco Bill de Blasio chiede un salvataggio federale, Trump nicchia. Una situazione analoga fu vissuta nel 1975. Il 29 ottobre di quell’anno il presidente repubblicano Gerald Ford rifiutò un aiuto federale per salvare il municipio di New York dalla bancarotta. Un tabloid locale pubblicò il titolo: «Ford a New York: crepa». De Blasio ha rievocato quell’episodio rivolgendo a Trump la domanda: «Hai deciso di lasciarci crepare?» In generale i repubblicani pensano che città e Stati più disastrati in questa fase siano per lo più quelli governati dalla sinistra, e paghino le colpe di una spesa pubblica dissennata, fondi pensione troppo generosi per il pubblico impiego. In realtà nuovi picchi di contagio si stanno allargando al Midwest: vedi la chiusura di un grosso impianto di carne suina della Tyson, colosso dell’industria agroalimentare. Nessuno riuscirà a contenere gli effetti economici della crisi, neppure il «granaio» d’America dove la lobby agricola vota repubblicano.

Sono incominciate anche le distruzioni massicce di eccedenze ortofrutticole: la filiera agroalimentare non riesce a riorganizzare abbastanza velocemente la sua logistica per spostare i rifornimenti dalla ristorazione ai supermercati. L’agricoltura americana è anche una vittima collaterale del nuovo irrigidimento nelle relazioni con Pechino. La tregua che venne raggiunta all’inizio di quest’anno fra Trump e Xi sulla guerra dei dazi, prevedeva decine di miliardi di acquisti cinesi in derrate agricole americane. Per adesso è tutto fermo.Il Missouri, Stato governato dai repubblicani, vuole processare la Repubblica popolare e il partito comunista cinese, per chiedere i danni, in nome dei 230 cittadini morti di coronavirus in quella giurisdizione. Chiede anche risarcimenti per la crisi economica che impoverisce il Missouri.

Il ministro della Giustizia di quello Stato, Eric Schmitt, ha presentato la denuncia al tribunale federale del Missouri accusando le autorità cinesi di numerosi reati: «Hanno ingannato il pubblico, hanno nascosto informazioni cruciali, hanno arrestato testimoni scomodi, hanno negato il contagio, hanno distrutto ricerche mediche, hanno consentito che milioni di persone fossero infettate, hanno accaparrato attrezzature mediche, hanno causato una pandemia globale che poteva essere prevenuta». L’iniziativa giudiziaria è clamorosa ma ha scarse probabilità di successo, perché uno Stato straniero è protetto dall’immunità sovrana. Xi Jinping non sembra impressionato da attacchi e denunce. A colpire l’opinione pubblica americana arriva infatti la notizia degli ultimi arresti a Hong Kong. Quasi che il leader cinese si senta più libero che mai di regolare i conti con gli avversari, nella città ribelle la polizia ha fermato e incarcerato una dozzina di attivisti democratici.

Tra gli arrestati figura anche un noto politico locale, Martin Lee, fondatore del partito democratico di Hong Kong. Di fronte alle critiche internazionali il governo di Pechino ha affermato «il proprio diritto di mantenere l’ordine costituzionale a Hong Kong», sottolineando così che non si farà condizionare dallo statuto autonomo dell’isola ex-colonia britannica.La Cina affronta una nuova sfida gigantesca: costruire un Welfare moderno per disoccupati. Nel medio-lungo termine, su questo si gioca la stabilità sociale e quindi il futuro del regime. I numeri ufficiali sono questi: la disoccupazione è salita al 5,9% che significa 26 milioni di senza lavoro. Curiosa coincidenza, è identica alla cifra americana (però gli Stati Uniti hanno un quarto della popolazione cinese). Questi numeri sono sicuramente sottostimati.

Inoltre la Cina deve ancora subire il secondo shock economico, quello provocato dal crollo della domanda globale per i suoi prodotti, inevitabile conseguenza della depressione in America e in Europa. Il Welfare cinese non è adeguato per gestire un’emergenza di queste proporzioni. Inoltre si scontra con la rigidità delle leggi sulla residenza. Gran parte dei disoccupati, dei nuovi poveri, sono cinesi delle campagne emigrati in città per lavoro. Il sistema dello hukou fa sì che centinaia di milioni di questi immigrati interni non abbiano diritto alla residenza in città, devono mantenere il domicilio legale nel luogo di provenienza. Quindi non hanno diritto alla scuola pubblica per i figli, alle cure mediche nelle grandi città, e così via. Questo crea due categorie di cittadini e ostacola gli aiuti al nuovo esercito dei senza lavoro.La questione cinese è destinata ad assumere un’importanza crescente anche nella campagna elettorale americana. Sia Trump che Joe Biden fanno a gara nell’accusare l’avversario di cedimenti e debolezze verso Pechino.

La seconda guerra fredda è ben visibile nell’escalation di accuse tra Washington e Pechino. Come c’insegna la storia della prima guerra fredda, il bipolarismo è un equilibrio instabile, che non previene né impedisce gli scontri militari a livello locale. Trump comunque si è convinto che se riesce a trasformare l’elezione di novembre in un referendum sulla Cina, la vincerà lui. Il 68% dei repubblicani e il 62% dei democratici considera la Cina una seria minaccia. A proposito della tensione con l’Iran: nell’immediato va ricordato che il massimo beneficiario del crollo nei prezzi del petrolio è la Cina, il massimo importatore di greggio nel mondo.