Età di pensionamento: inevitabile alzarla

Secondo due esperti friburghesi, l’invecchiamento della popolazione richiama la necessità di aumentare gli anni di attività lavorativa. Con adeguati incentivi si potrebbero superare gli ostacoli che hanno fatto cadere la recente proposta di riforma «Previdenza 2020»
/ 16.10.2017
di Ignazio Bonoli

Si è detto e scritto molto sul risultato (per certi versi sorprendente) del voto contrario del popolo e anche dei cantoni (per il finanziamento tramite l’IVA) alla riforma «Previdenza 2020», il tema più importante di questa legislatura. Premettiamo che su un aspetto – sicuramente primordiale – della riforma sono tutti d’accordo e cioè sulla sua necessità. Anche in questo caso i motivi di fondo sono noti da tempo: principalmente l’invecchiamento della popolazione e quindi il numero sempre più ridotto di coloro che pagano i contributi (le persone attive) rispetto a coloro che ricevono le rendite (i pensionati).

Dalle prese di posizione seguite al voto popolare negativo, si può notare la volontà di dedicarsi in primo luogo alla revisione dell’AVS, che dovrebbe avvenire entro il 2019. C’è però ancora un grosso ostacolo da superare: l’aumento dell’età di pensionamento. Un primo approccio è stato fatto con l’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni, che è però uno dei motivi del no popolare. Sul piano tecnico e visto l’aumento della speranza di vita (80,1 anni per gli uomini e 84,5 anni per le donne) questo passo non può più essere rimandato a lungo.

Questa necessità è stata più volte ricordata anche da tutti gli esperti del settore. Tra questi, il professor Reiner Eichenberger, con la sua assistente Ann Barbara Bauer, un mese prima della votazione, hanno pubblicato un’ampia analisi della situazione, partendo dall’assunto secondo cui l’AVS si potrebbe salvare soltanto con un aumento dei contributi e/o una riduzione delle rendite, oppure con un aumento sensibile dell’età di pensionamento.

Quest’ultima soluzione, per altro già prevista da parecchi paesi, è la migliore, soprattutto se all’AVS verrà attribuito il ruolo di fattore chiave di tutto il sistema previdenziale. Ammesso il principio, resta da risolvere il problema del come fare. I due esperti vedono due possibilità: o un aumento generalizzato dell’età di pensionamento, o un’ampia flessibilizzazione con scelte individualizzate. La prima soluzione incontrerebbe certamente ancora molte opposizioni, ma anche per la seconda non esistono ancora modelli abbastanza attrattivi per i lavoratori.

Oggi chi continua a lavorare dopo l’età di pensionamento, senza rinunciare alla rendita, si vede aumentare le imposte da pagare. Chi invece rimanda la percezione della rendita può correre rischi finanziari. Non solo, ma invece di contribuire a finanziare l’AVS, versa più soldi alle casse pubbliche, che li usano per altri scopi. La proposta è quindi quella di flessibilizzare l’età di pensionamento, accompagnata da incentivi al lavoro, da un lato, e dall’altro da prelievi che vadano tutti a beneficio dell’AVS.

Oggi, infatti, il sistema praticato non è attrattivo per due motivi: è favorevole solo a chi ha la possibilità di vivere a lungo, ma poi chi lavora più a lungo non ha sempre la necessità di una rendita più elevata. Si dovrebbero perciò ridurre i contributi prima del pensionamento (per esempio dai 55 anni), dato che si percepirà un numero di rendite minore, a causa dell’aumento degli anni di lavoro e si pagherà altrettanti contributi in più. Anzi, se i contributi dei datori di lavoro nei due pilastri rimangono quelli attuali, quelli dei lavoratori potrebbero perfino essere soppressi, il che sarebbe un grosso incentivo a rimandare il pensionamento.

Un altro tema scottante va visto nel fatto che le imposte pagate dalle persone anziane sono in genere elevate, tanto più che il limite massimo delle rendite li fa diventare quasi prelievi fiscali. L’incentivo potrebbe consistere in una forte riduzione delle aliquote per chi lavora dopo il pensionamento. L’aumento del reddito disponibile per l’anziano potrebbe permettere ai datori di lavoro di studiare appositi modelli per i lavoratori anziani.

L’effetto macro-economico (più consumi, più investimenti, più risparmi e anche più imposte) potrebbe essere notevole. Ma proprio questo effetto potrebbe portare maggiori entrate allo Stato, che a sua volta potrebbe contribuire meglio a finanziare la previdenza. I due esperti concludono perciò che l’invecchiamento della popolazione non è in sé un male, bisogna soltanto saperlo utilizzare nei dovuti modi. Questo comunque non permetterà di evitare di aumentare l’età di pensionamento delle donne, né di non ridurre il tasso di conversione delle casse pensioni. Ma – secondo i due esperti citati – i vantaggi del sistema superano gli svantaggi e si potrebbe cominciare ad applicarlo proprio con l’aumento dell’età di pensionamento delle donne.