Economia dei «semafori»

Analisi - Quali sono gli incentivi di politica economica per «dinamizzare» la società, e quali gli ostacoli?
/ 04.12.2017
di Edoardo Beretta

È indiscutibile che vi sia spesso scarso consenso su quali siano le migliori «ricette» economiche per rendere più agili le economie post-industriali. Ciononostante, non si può prescindere dal prendere in considerazione alcuni principi comunemente accettati, qualora si vogliano mantenere vitali sistemi economici ormai «maturi» (e, quindi, esposti al rischio di «sclerotizzazione» nei loro meccanismi di funzionamento). Alla stregua di un impianto semaforico con i suoi tre colori, la cui corretta impostazione è fondamentale quanto non sempre scontata, è compito dei policymaker trovare quel bilanciamento di misure economico-politiche da proporre alla società di afferenza.

Ecco che un buon grado di liberalizzazione economica (fatta di privatizzazioni laddove necessarie o prevenzione da monopoli artificiali oltre che accordi suscettibili di interventi anti-trust) è spesso visto quale «volàno» economico. Lo stesso dicasi per procedure burocratiche «snelle», cioè più informatizzate per ridurne tempi e costi di elaborazione. Più complesso è, invece, il consenso sull’opportunità che gli apparati statali utilizzino meno la leva dei trasferimenti fiscali (per redistribuire ricchezza) a vantaggio di un approccio rivolto a creare le premesse atte alla realizzazione lavorativa di ciascun individuo nel territorio di sua preferenza: in altri termini, perseguire qualcosa di assai simile al concetto di capabilities («capacità») teorizzato dal Premio Nobel Amartya Sen, sebbene in questo caso esso dovrebbe essere «rimodellato» su Paesi già benestanti. In altre parole, affinché le diseguaglianze e, talvolta, la stessa povertà possano essere mitigate (se non sconfitte) non è la sola imposizione fiscale a potervi contribuire, ma in primissima istanza l’accesso a tutte le possibilità di autorealizzazione (lavorativo-individuale-sociale). Il rischio sarebbe di «educare» fasce della popolazione ad essere dipendenti dall’interventismo statale quando sarebbe sufficiente soltanto la creazione di lavoro o condizioni idonee per «salire di grado» al suo interno.

In altre parole, lo spirito di rinnovamento dovrebbe divenire «chiave» delle prospettive di crescita economica futura. Con maggiore scetticismo si dovrebbe, quindi, valutare ogni iper-interventismo statale, che a crisi economico-finanziarie concluse dovrebbe cessare così da mantenere intatti quei margini d’espansione necessari a fronteggiare eventuali altre situazioni future di incertezza economica. Con ciò non si intende, tuttavia, che gli Stati debbano farsi carico della mala gestio di singoli attori (finanziari e non), pagandone i costi − come anche eventi recenti, invece, dimostrano − senza compartecipare ad eventuali futuri introiti (e, quindi, avallando un inaccettabile moral hazard da parte privata). Da un punto di vista imprenditoriale-aziendale l’accento dovrebbe essere piuttosto sul concetto di «produttività», che è oggi inteso come «produrre di più a parità di tempo». Invece, la «produttività 2.0» dovrebbe essere riassunta dal più calzante «produrre meglio in meno tempo».

Ma quali sono i «semafori rossi», cioè quelle misure economico-politiche, che tendono a frenare la vitalità del funzionamento economico? Sicuramente, eccessiva burocrazia oltre che tassazione dell’attività produttiva sono disincentivanti al punto da creare in molti disinteresse ad espandere la propria attività lavorativa. Se tale concetto (noto oltralpe con kalte Progression) è assai diffuso, esso si è aggravato in molte nazioni europee in seguito alla Grande Recessione ed alle necessità di finanziamento degli Stati a fronte di già ingenti disavanzi o debiti pubblici. L’instabilità politica certo non agevola, e neppure ogni politica degli alti tassi di interesse: quest’ultima (se prolungata) può implicare il cosiddetto «effetto di spiazzamento» (crowding-out effect), in conseguenza di cui solo certi attori economico-istituzionali «forti» sarebbero in grado di rifinanziarsi, mentre una parte dell’economia più «debole» verrebbe esclusa dalla possibilità d’investire. Se ciò è avvenuto in paesi quali l’Italia negli anni Ottanta − sia menzionato soltanto il «picco» in termini di tassi d’interesse al prestito nel 1983 (22,3%) (1) −, si potrebbe domandare quale sia ora il motivo per non investire in epoche (forse irripetibili) di bassi tassi d’interesse. Che si sia in molti casi passati da uno stato di «spiazzamento» ad uno «spiaggiamento»? E che dire poi della scarsa propensione al rinnovamento non necessariamente della classe imprenditoriale quanto dell’approccio con cui affrontare gli «scogli» di volta in volta all’orizzonte? Se superare una recessione economica non è semplice, il fine ultimo dovrebbe essere sempre il perseguimento dell’«onda verde» per favorire lo scorrimento del traffico ed evitarne situazioni di congestionamento. La tendenza è piuttosto quella di ricorrere alla «leva fiscale» oltre che ad una (iper-)regolamentazione, cioè all’introduzione metaforica di un semaforo rosso o attraversamento pedonale di fronte ad un rondò (esautorando quest’ultimo dalla sua funzione di autoregolamentazione viabilistica). Se l’intento comune è effettivamente quello di aumentare la «velocità di corsa» delle moderne economie, non vi dovranno essere allora troppi «semafori rossi».

Nota

1. http://databank.worldbank.org/data/reports.aspx?source=2&series=FR.INR.LEND&country=