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Debiti degli uni, crediti degli altri

Bilancia commerciale - La visione «a tutto tondo» è in economia imprescindibile per comprendere la complessità del mondo globalizzato
/ 13.03.2017
di Edoardo Beretta

Una sempre valida base di partenza nel ragionare in termini «macroeconomici» consiste nel riconoscere quanto la contabilità a partita doppia (cioè il principio, con cui crediti e debiti vengono universalmente registrati) sia tutt’altro che trascurabile. Ma, nella realtà, funziona davvero così? La percezione è, invece, che Governi e decisori economico-politici tendano troppo spesso a sottovalutare complessità di relazioni commerciali e finanziarie (inter)nazionali. Eppure, in una società strutturalmente interconnessa come quella globale è bene evitare di prendere in considerazione soltanto una parte, cioè dimostrare una mentalità «spartiacque». O creditori o debitori, dunque? Osservando la tematica evergreen dell’indebitamento estero, limitarsi a «puntare il dito» contro le sole Nazioni debitrici senza esaminare il lato creditorio (che è l’altra faccia della medesima medaglia) sarebbe fuorviante.

In altri termini, il disavanzo commerciale di certi Paesi, cioè il fatto che essi importino beni e servizi in sovrappiù rispetto a quanti ne esportino, è evidentemente compensato da un flusso finanziario di segno opposto (cioè positivo) verso il resto del mondo. Semplificando, debitori commerciali netti sono contemporaneamente creditori finanziari netti: viceversa, ovviamente, creditori commerciali netti sono debitori finanziari netti. La responsabilità dei cosiddetti «squilibri globali» (comunemente chiamati global imbalances), cioè di condizioni economiche opposte fra Paesi, non può perciò essere esclusivamente attribuibile ai debitori, ma anche ai creditori stessi. È lo stesso Trattato di Maastricht (1992) a prescrivere un «tetto» in termini di deficit pubblico pari al 3% annuo rispetto al PIL, ma − più recentemente dal 2013 (senza risultati degni di nota) − la Commissione Europea ha anche «bacchettato» Nazioni con surplus delle partite correnti superiori al 6% rispetto al PIL per più di tre anni consecutivi.

Nelle scienze economiche è, pertanto, indispensabile che si ragioni in termini di «vasi comunicanti» ‒ principio comunque valido anche in un’economia chiusa, cioè in assenza di scambi con il resto del mondo: anche in tal caso (ormai costituito da solo una manciata di Nazioni), le stesse regole si applicherebbero. A livello nazionale, ne è esempio la relazione fra depositi e prestiti bancari dove il risparmio dell’uno è la concessione di credito all’altro. Quindi, se una Nazione presenta un forte disavanzo commerciale, ciò significa che altri partner possano essersi «abituati» a farle sistematicamente credito. Ecco che i dibattiti a carattere nazionalistico dovrebbero tenere conto di tali nessi, cioè che ‒ a mero titolo esemplificativo, ma certamente non esaustivo ‒ per ridurre il debito estero di alcune Nazioni è necessario che altre taglino il proprio credito nei confronti degli stessi.

Non si può nemmeno escludere che la persistente presenza di tali squilibri internazionali possa avere «impigrito» i Paesi coinvolti, convincendoli che lo status quo sia incontrovertibile senza che essi debbano apportare alle loro politiche quelle modifiche richieste ai soli altri. Ciò potrebbe essere il caso degli Stati Uniti d’America, che dal Secondo Dopoguerra in poi hanno accumulato i più elevati saldi (negativi) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, passati da un «flebile» surplus pari a 2,62 mld. $ nel 1970 ad uno «spaventoso» disavanzo di 462,96 mld. $ nel solo 2015 (1). Una ragione potrebbe essere rappresentata dalla necessità di essere stati «fornitori» di liquidità per il resto del mondo, essendo la moneta americana a lungo stata l’unico mezzo di pagamento internazionalmente accettato. Se tale problema non è più così pressante (essendosi aggiunte altre monete globalmente spendibili), la Nazione americana ha ormai «plasmato» la propria economia domestica su quella suddivisione dei ruoli. Alcuni altri Paesi come la Cina (ma meno la Germania, che fa leva sulla propria influenza egemonica europea) stanno sempre più «scommettendo» su crescita economica meno export-led, cioè altamente dipendente dal settore delle esportazioni, avendo presa consapevolezza del fatto che (in presenza di crisi economica a carattere pandemico) scarso sia l’affidamento possibile su perduranti incrementi della domanda internazionale come nel passato. Perché è chiaro, qualora non si sia oggi imparato a pensare in termini di «causa-effetto» o «parte-controparte», il risultato sarebbe perlomeno parziale ‒ se non del tutto errato.

Nota 1. data.worldbank.org/indicator/BN.CAB.XOKA.CD