Se la salvaguardia ambientale era ‒ solo fino a qualche decennio fa ‒ ancora considerata residuale (se non, persino, retaggio di una cultura «sessantottina»), essa ha assunto ai giorni nostri carattere di rilevanza strategica oltre che di «mera» condizione di sopravvivenza del pianeta stesso. Oltre a tutte le considerazioni per gli individui correlabili ad un ambiente meno inquinato, la progressiva attenzione economica ha perlomeno avuto il merito di sensibilizzare anche quei settori produttivi fino ad allora più scettici (in quanto preoccupati delle possibili perdite di ricavi derivanti da eventuali irrigidimenti degli standard vigenti). Dopodiché, il termine «risparmio energetico» è entrato prepotentemente nelle vite quotidiane di tutti noi, persino «addossando» all’economia domestica l’onere (anche finanziario) di tanti aggiustamenti nella sua conduzione. Senza analizzarli voce per voce (omettendo di concedersi alla frequente pretesa delle scienze economiche di farvi ricadere ogni risposta) è frequente la sensazione che i sopra citati risparmi domestici ‒ banalmente: dal cambio della lampadina a favore di una a basso consumo a tanti altri accorgimenti per utilizzare minori risorse idriche, elettriche o energetiche ‒ siano ben poca cosa di fronte alla vera portata del problema, che si banalizza troppo spesso ricadendo in tali cliché.
Se è senz’altro vero che «tanti poco fanno assai», lo è altrettanto che la scarsa sostenibilità delle odierne condizioni ecologico-ambientali in molti Paesi sia da imputarsi perlopiù all’industria stessa (certamente, sulla base di una domanda esercitata globalmente), determinando un accostamento impari fra «milioni» in termini di risparmi effettivi e «miliardi» di risparmi potenziali. Ancor più precisamente, una soluzione sostenibile per la tutela dell’ambiente non può permettere di cadere nella tentazione del «chi paga può inquinare». Ciò pare, invece, proprio il caso del cosiddetto «mercato delle emissioni» (emissions trading), con cui vengono quotate monetariamente, nei Paesi che vi aderiscono, le emissioni nocive di inquinanti quali gas serra per poi commerciarne il relativo «diritto» fra Nazioni. È evidente che tale approccio costituisca sì un «passetto» avanti nel tentativo di disincentivare finanziariamente l’eccessivo inquinamento ambientale, ma i tempi sono davvero troppo diluiti di fronte al concreto rischio che da deterrente divenga una semplice voce di costo da inserire nei bilanci aziendali/nazionali. Proprio sulla scia di tale argomentazione si potrebbe anche discutere circa l’efficacia (o l’appropriatezza) del divieto d’accesso in molti centri cittadini alle auto che non pagano un ticket d’ingresso. Se l’intento è quello di salvaguardare l’ambiente, tale priorità non può essere riformulata in chiave «rimpinguacasse». Lo stesso discorso vale per le cosiddette «ecotasse», fra cui vi è anche la spesso menzionata carbon tax. Del resto, i dati parlano chiaro: nel 2011 all’Unione Europea ed agli Stati Uniti erano da iscriversi rispettivamente il 10% ed il 16% delle emissioni globali di gas serra, mentre Paesi quali Cina, Russia ed altri raggiungevano «quote» pari a 28%, 6% e 30% (1).
Quale soluzione, dunque, perseguire dinanzi all’apparentemente insormontabile dilemma posto dalla necessità di continuare a crescere a vantaggio del PIL (misura principale di benessere economico), ma con più sostenibilità (se non altro, per evitare costi ecologici, sanitari ed infrastrutturali in futuro sempre più insostenibili)? I dati statistici illustrano come l’impatto sull’ambiente in termini di danno da diossido di carbonio (in percentuale rispetto al Reddito Nazionale Lordo) si sia sì attenuto, una «vera» soluzione, però, non può prescindere da cambiamenti strutturali a variabili «chiavi» quali approccio a lavoro, economia e società nel loro complesso, che dovrebbe articolarsi fra migliore flessibilità lavorativa (cfr. telecommuting, desksharing etc.), fluente viabilità stradale, sgravi su possesso e/o acquisto di veicolo meno inquinanti oltre che mezzi pubblici sempre meno soggetti a rincari oltre che a miglior prezzo per tutti. Certamente, in una società postindustriale la crescita non potrà permettersi più di avere i connotati delle epoche del passato recente fatto di boom edilizio, elettronico ecc. Slow economy (in un’accezione più vasta di quella di degrowth, cioè di decrescita) non significherebbe certo minore efficienza, anzi. Lo stadio ultimo di tale processo di rivoluzione mentale consisterebbe nel comprendere – gli esempi sopra menzionati, però, ci segnalano che ne siamo ancora ben distanti – che gli individui possono sentirsi semmai «custodi», ma certo non «proprietari» dell’ambiente, cioè del bene comune per eccellenza da tramandare ai posteri.
Nota
1. https://www.epa.gov/ghgemissions/global-greenhouse-gas-emissions-data#Country