Criptovalute: fra «prezzo» e «valore»

Valute virtuali – 2 Dal 2009 in poi Bitcoin & co. hanno subito una vera e propria crescita esponenziale: buone notizie, dunque? In questo secondo articolo indaghiamo gli argomenti contrari
/ 28.05.2018
di Edoardo Beretta

Se nell’articolo precedente (22.5.18) erano stati presentati gli argomenti a favore delle valute, cioè di quel nuovo strumento finanziario considerato da alcuni quale vero e proprio futuro delle monete per come si conoscono, è ora giunto il momento di dare voce anche agli aspetti di incertezza legati ad esse. Nello specifico, investire in criptovalute comporta un elevato livello di rischio dato dai repentini sbalzi di prezzo subiti anche nell’arco di poche ore. Se da un lato è vero che il pubblico di riferimento ancora ha difficoltà ad apprezzarle nella loro interezza (e, quindi, ciò ne può comportare significative fluttuazioni), dall’altro non si può dimenticare come nel trattare di «valori» e «prezzi» si debba fare uso − almeno a livello macroeconomico (sebbene meno nel gergo quotidiano) − di particolare prudenza. 

Per intenderci: se il prezzo di un’unità di criptovaluta è senz’altro più che positivo (si pensi che un Bitcoin attualmente costa 8089,52 dollari statunitensi (1), un economista difficilmente potrebbe sostenere che il valore delle stesse sia diverso dallo zero (o suppergiù) in quanto create «dal nulla» (cioè originate da una mera scrittura contabile), senza alcuna copertura fornita da un metallo prezioso o dalla capacità economica di uno Stato (cioè dal PIL) ‒ come dovrebbe, peraltro, avvenire per le stesse emissioni monetarie delle banche centrali.

Il principio di creazione di tale strumento finanziario su base privata, cioè svincolato da un sistema bancario, pone di fronte ad una problematica del tutto nuova. Perché se è vero che le «monete private» sono state teorizzate nell’arco della storia da grandi autori quali Friedrich August von Hayek (1976), lo è altrettanto che in epoche di bolle finanziarie con uno «scollamento» sempre più evidente fra il prezzo di vendita/acquisto di un bene/servizio ed il suo valore effettivo, le criptovalute certo presentano elementi non particolarmente dissimili. Difficile, infatti, immaginare come sia possibile che un soggetto privato (ma anche pubblico) crei ricchezza dal nulla, cioè mediante la mera capacità computazionale del proprio PC collegato ad una rete informatica. L’argomento della scarsità delle criptovalute dato dall’impossibilità tecnica di emissione sopra ad un livello prestabilito − nel caso del Bitcoin vi sarebbe una tendenza ad un limite di 21 milioni di unità − non «tiene» allo stesso modo, poiché il numero «scarso» (o, più precisamente, calibrato sul fabbisogno) di esse dovrebbe essere solo uno fra gli elementi portanti di ciascuno strumento finanziario.

Con parole semplici: la scarsezza di quanto «non ha valore intrinseco» non gli fa certo acquisire «preziosità innata» ‒ semmai, laddove vi sia un’elevata domanda, ne fa lievitare il prezzo di vendita. Senza concedersi a tecnicismi, sia comunque detto che nessun soggetto (grande o piccolo che sia) può «sdebitarsi» mediante una semplice emissione monetaria, che avverrebbe in questo caso addirittura in house: se i sostenitori delle criptovalute ne ribadiscono quindi la funzione di «moneta», allora il principio di cui sopra si applica incondizionatamente. In altre parole, sarebbe impensabile un sistema economico, in cui i pagamenti siano effettuabili non in termini «reali», cioè attingendo a redditi o ricchezze precostituiti. Se ci si scandalizza degli usi medievali in capo al feudatario di «battere moneta» (con cui finanziare le proprie spese non altrimenti finanziabili), non si può non farlo nel caso delle criptovalute.

A chi ricordasse come le stesse banche centrali abbiano sovente sovraemesso liquidità per sostenere il sistema economico-finanziario si deve replicare che tale agire non porterà ad altro che inflazione e/o fluttuazioni sui mercati valutari/finanziari. Per assurdo: se la ricchezza fosse generabile dal nulla, il problema della povertà nel mondo sarebbe «annullato». Reinterpretando ed aggiornando ai tempi un aneddoto formulato da J.M. Keynes (1936): qualora nottetempo si facessero trovare bottiglie piene di banconote nel giardino di ciascuno, ciò non creerebbe ricchezza aggiuntiva, bensì un incremento del livello dei prezzi tale da annullare altrettanto rapidamente i benefici di tale cadeau. Per non parlare dell’elevato consumo di energia elettrica, che occorre per generare tali strumenti finanziari: essendo il mondo asiatico fra i maggiori «minatori» di tali criptovalute, oltre che caratterizzantisi per energia non sempre «pulita», è evidente che allo stato attuale tale criticità sia lungi dall’essere trascurabile.

Se è vero che alla tecnologia della blockchain è attribuito un importante potenziale, essa è anche criticabile per garantire quella trasferibilità di denaro nello spazio di pochi minuti, escludendolo dal controllo degli istituti bancari: è anche paradossale che molti Paesi europei abbiano limitato l’uso dei contanti, che garantiscono sì anonimato ma non immediatezza di trasferimento, quindi sono meno «comodi» in caso di attività illecite. Quali saranno i futuri sviluppi delle criptovalute potrà dirlo solo il tempo. Che ci sia qualcosa di fondamentalmente inconsueto è dimostrato dal differenziale di prezzo fra un’oncia (28,35 g) di oro ‒ attualmente, a 1340,10 dollari (2) ‒ ed il Bitcoin, che ha raggiunto nel 2017 massimi storici di quasi 20’000 dollari (3). Da Creso a Mida fino a Paperon de’ Paperoni ne sarebbero sconvolti: e un po’ anche noi.

Note

1. Quotazione come riportata a metà giornata del 13 aprile 2018 (https://coinmarketcap.com/all/views/all/)
2.https://www.apmex.com/spotprices/gold-price 
3. https://www.coindesk.com/900-20000-bitcoins-historic-2017-price-run-revisited/