Corea del Sud e Israele più forti per natura

Sistemi a confronto – Abituati a vivere in uno stato di minaccia perenne, sono i Paesi che di fronte all’emergenza Covid hanno reagito meglio e più tempestivamente
/ 13.04.2020
di Giulia Pompili

A poco più di tre mesi dall’inizio della pandemia, i paesi che finora hanno reagito meglio e tempestivamente per bloccare i contagi di Covid e ridurre la mortalità sono quelli che convivono da sempre con una minaccia esistenziale che mette in pericolo l’incolumità della popolazione. È un dato interessante, che non può essere preso a modello ma di certo può aiutare a capire dove gli altri paesi, europei e asiatici, sono più fragili nella catena di comando in caso d’emergenza. Corea del Sud, Israele, ma perfino la piccola Taiwan, l’isola rivendicata da Pechino e guidata da un combattivo governo indipendente, sono paesi in equilibrio tra oriente e occidente, democratici, che non solo si sono ritrovati all’inizio dell’epidemia con protocolli sanitari studiati ed efficaci, ma hanno potuto contare sulla capacità, della politica e dei cittadini, di prendere contromisure immediate.

Avere una minaccia esistenziale al di là dei confini vuol dire anche che le autorità sono capaci – potremmo dire quasi abituate – a prendere decisioni in modo immediato: in caso d’emergenza la burocrazia può essere scavalcata, e i dibattiti rimandati, e questo non significa mettere da parte la democrazia, ma anzi mettere la protezione della popolazione davanti a tutto, prima ancora del consenso politico. La guerra contro il Sars-CoV-2, il nuovo coronavirus saltato da un pipistrello all’uomo, forse attraverso un secondo animale, e diffuso nel mercato di Wuhan, in Cina, sembrava una minaccia lontana dalla Corea del Sud all’inizio di febbraio. Il governo guidato dal democratico Moon Jae-in aveva mantenuto attivi tutti i collegamenti con la Cina, un modo per non mandare messaggi diplomatici ostili a Pechino, dopo anni di tensioni recentemente risolte. Poi però il primo focolaio di Covid è stato individuato nella città di Daegu, e il 23 febbraio è stato dichiarato lo stato d’emergenza.

Quel giorno il governo di Seul ha indossato la giacca gialla, quella che i funzionari dell’esecutivo mettono per mostrare ai cittadini coordinamento e operatività. Ed è scattato un protocollo che Seul ha perfezionato sin dal 2015, l’anno dell’epidemia di Mers che in Corea del Sud ha fatto 36 morti. Il sistema sudcoreano si basa sulle tre T, «trace, test and treat», traccia, testa e cura. Nessun lockdown, ma uno sforzo enorme per controllare ogni possibile contagiato, avvertire tutte le persone che sono state a contatto con un infetto, isolarle, testarle con kit rapidi, e infine curarle in strutture d’emergenza. La tempestività è tutto in questi casi, ripetono i funzionari del governo sudcoreano. Ma come si può essere pronti a uno sforzo simile? Seul si trova a soli 56 chilometri dal confine nordcoreano. Il 38º parallelo, fino a poco prima del disgelo voluto da Moon Jae-in, era tra i luoghi più militarizzati del mondo. Le provocazioni nordcoreane si fanno periodicamente sempre più pericolose, tra test missilistici e nucleari che hanno raggiunto una frequenza inquietante nel 2017.

Anche per questo sin dal 1957 per tutti gli uomini il servizio di leva è obbligatorio, le esenzioni sono pochissime e la durata dipende dal servizio reso: per i ruoli attivi poco più di un anno, per i professionisti come i medici può durare anche tre anni. Le Forze armate sudcoreane sono tra le più numerose al mondo, con seicentomila militari attivi e oltre tre milioni di riservisti. Dopo l’inizio dell’epidemia, i militari con ruoli di combattimento sono stati messi in lockdown per assicurare una continuità nella sicurezza dalle minacce esterne, mentre i riservisti e i volontari sono stati impiegati per i controlli e le operazioni di sanificazione. Caserme, strutture militari sono state in poco tempo modificate e impiegate per gli isolamenti, e i lavori sono stati effettuati in tempo record dai militari. Test, disinfettante, produzione di mascherine: il governo ha partecipato economicamente a tutti gli sforzi delle aziende private per rendere il Paese autosufficiente sui beni essenziali per combattere l’epidemia.

Che è un po’ quello che è successo a Taiwan, che ha chiuso i suoi confini e messo subito in lockdown la capitale Taipei, limitando gli spostamenti: oggi i protocolli di Taiwan sono considerati tra i migliori al mondo. In Israele la pandemia è arrivata in un momento di grave crisi politica. Le elezioni generali da celebrare, il 2 marzo scorso, una maggioranza impossibile da trovare e una specie di leadership a rotazione che si dividono Benjamin Netanyahu e Benjamin «Benny» Gantz. Quando i casi di Covid sono iniziati a crescere, l’ufficio del primo ministro ha ordinato che il Ministero della difesa e l’Home Front Command, cioè il comando che si occupa delle emergenze su territorio israeliano, lavorassero insieme al ministero della Salute per combattere l’epidemia. Anche Israele ha a disposizione un numero enorme di militari del servizio di leva e riservisti. Lo stato d’emergenza è stato dichiarato a metà marzo, e il lockdown implementato in vari passaggi.

Il 2 aprile anche il ministro della Salute Yaakov Litzman è risultato positivo al coronavirus. Il ministero della Difesa ha assunto la gestione di tutti i dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, sia quelli disponibili in Israele sia quelli importati. Ma Israele è anche un paese che ha a disposizione tecnologia e laboratori di ricerca di altissimo livello, sempre per motivi che riguardano una tradizione di difesa che arriva da lontano. Da un lato c’è l’Iibr, l’Israel Institute of Biologic Research, centro specializzato nella difesa da attacchi batteriologici, che è stato uno dei primi al mondo ad aver annunciato seri progressi sul vaccino per il Covid. D’altra parte c’è la tecnologia, di solito usata per monitorare i terroristi e le minacce esterne, che è stata messa in campo per tracciare i contagiati. L’uso di certi metodi ha creato parecchie polemiche sulla sorveglianza di stato, ma dopo la sua messa online, un milione e mezzo di israeliani ha scaricato l’applicazione «HaMagen», perfezionata dal governo per controllare il virus.