Banche versus assicurazioni: pari rischi?

L’attività bancaria non è intrinsecamente rischiosa, la rendono invece tale un’eccessiva propensione al rischio e investimenti sbagliati – Al contrario, pur confrontate con rischi oggettivi, le assicurazioni si dimostrano solide
/ 09.07.2018
di Edoardo Beretta

La crisi economico-finanziaria globale (dal 2007 in poi) ha costituito un evento di enorme portata sotto più punti di vista: ad esempio, essa ha messo in dubbio l’ipotesi di razionalità dei soggetti economici (dalle economie domestiche fino alle aziende e gli Stati) allora pressoché incontestata, oltre ad avere comportato ingenti perdite con frequente necessità di «salvataggi» da parte di banche centrali e Stati. Fra le entità più colpite da tale crisi pandemica vi sono stati, senz’altro, gli istituti bancari, che dapprima con la concessione di mutui altamente rischiosi (subprime) e successivamente con una stretta creditizia (credit crunch) senza precedenti derivante dalla sfiducia creatasi sul mercato interbancario, hanno messo a dura prova la sostenibilità dell’economia mondiale: quest’ultima è, notoriamente, tuttora gravata dai livelli di indebitamento pubblico accumulati in questi anni.

Anche fra gli esperti l’attività bancaria è storicamente considerata foriera di rischi operativi non indifferenti. Ça va sans dire: è impensabile, quindi, che gli episodi di crisi degli ultimi anni possano anche essere gli ultimi di provenienza bancario-finanziaria. La potenziale veridicità (per non dire, certezza) di tale affermazione può, però, distogliere dal porre alcune domande «scomode». Ad esempio: perché l’attività bancaria deve essere poi considerata (così) «rischiosa»? Infatti, l’attività principale del sistema bancario (prescindendo dall’emissione monetaria e focalizzandosi sulla sola intermediazione finanziaria) prevede:

1. la raccolta di risparmio e concessione di prestiti (anche tramite anticipazione monetaria) dopo preventiva verifica dei requisiti necessari;

2. assicurarsi che tali somme vengano debitamente rimborsate da parte del debitore (che dovrebbe esibire comunque una serie di collateral a garanzia della sua liquidità/solvibilità).

A fianco a tale attività di rischio ve n’è un’ulteriore, che prevede:

1. il reinvestimento delle somme depositate dai risparmiatori;

2. la remunerazione di tali investimenti (oltre che il rimborso degli stessi) garantendo un minimo tasso di interesse.

Ragionevolmente, i rischi derivanti dall’attività bancaria potrebbero essere assai prevedibili ‒ meglio: dovrebbero esserlo perlomeno ‒, poiché gli istituti bancari non erogano tradizionalmente risorse proprie, ma si limitano a rimborsare (o recuperare) somme già depositate nei loro bilanci, che dovrebbero farle fruttare in base ai più intuitivi principi di gestione patrimoniale. In aggiunta, esse possono beneficiare di tutta una serie di commissioni ed imposte applicabili sull’erogazione dei loro servizi. Pertanto, l’attività bancaria nella sua forma più connaturale è lungi dall’essere più «rischiosa» di una qualsiasi altra attività imprenditoriale (ad esempio, soggetta a congiuntura economica, eventi naturali, mutevoli trend del mercato, tassazione elevata etc.). Inoltre, la progressiva e (dai policymaker quasi indotta) dematerializzazione dei mezzi di pagamento con conseguente deposito presso gli istituti bancari di riferimento, oltre che la consapevolezza di potere spesso contare su «salvataggi» pubblici in forza del principio too big to fail (cioè «troppo grande per fallire»), dovrebbe rendere l’attività bancaria una vera e propria «cassaforte». Se ciò non avviene, non è per i rischi intrinseci a tale business quanto piuttosto per smodata propensione al rischio nelle ultime decadi, con investimenti «azzardati» (cioè senza avere «scavato» troppo a fondo sui fondamentali di essi), politiche gestionali sovraespansive e/o troppo lontane dal proprio core business1.

Solo a tali condizioni (che sono però spesso quelle vigenti) il mestiere del banchiere può diventare foriero di gravi rischi. Perdipiù, l’attività bancaria non pare essere accostabile in termini di rischiosità nemmeno a quella del settore assicurativo, che è invece fisiologicamente caratterizzata da una (potenziale) maggiore esposizione a fattori imprevedibili, fatalità e, conseguentemente, ad ingenti perdite finanziarie derivanti. Nonostante ciò, è sufficiente guardare al raffronto fra bilanci assicurativi e bancari come presentati nell’ottobre 2014 per constatare quanto la copertura da rischi del settore assicurativo sia persino migliore a fronte di durate di attività/passività pressoché simili fra loro. Pensando ai (pur sempre elevati) premi corrisposti dai clienti, che comunque solo in minima parte coprono i rimborsi a carico dell’ente assicurativo in caso di sinistri plurimi (ad esempio, a seguito di fenomeni atmosferici imprevedibili o altri fattori imponderabili di rischio), è evidente che in tal caso sia l’assicuratore a «mettervi del proprio». Pertanto, lo spirito d’accettazione, con cui la società giustifica troppo spesso anche solo incagli finanziari da parte di certi istituti bancari, diviene sempre meno comprensibile, guardando ai soli rischi connaturati all’attività stessa. Poiché il trend verso la sovraesposizione a rischiosità ‒ nonostante certi flebili tentativi di regolamentazione ‒ non sembra volere diminuire, il consiglio per i policymaker (che, di fatto, sono i gestori patrimoniali del benessere collettivo) pare proprio essere quello di dedicarsi alla riformulazione dei principi fondamentali di svolgimento delle attività bancarie più esposte, che spesso introducono incognite del tutto artificiali in quanto non intrinseche alla natura stessa delle banche. Una migliore solidità di tale settore sarebbe, altrimenti, difficilmente perseguibile.

Nota
1. Elaborazione propria sulla base di: https://www.insuranceeurope.eu/sites/default/files/attachments/Why%20insurers%20differ%20from%20banks.pdf.