Avanti con una «soft Brexit»

Piano May – La premier britannica resiste proponendo la formula di un semi divorzio con un’area di libero scambio tra Regno Unito e Ue che assomiglia al mercato unico. Unica chance, forse, di portare a termine il negoziato
/ 27.09.2002
di Cristina Marconi

 

Anche in uno scontro al rallentatore prima o poi l’impatto avviene. Nelle lungaggini estenuanti della Brexit, ad avere inaugurato l’inevitabile clima da resa dei conti sono state le doppie dimissioni del ministro responsabile del dossier, David Davis, e di quello degli Esteri, Boris Johnson, a pochi giorni dalla presentazione della proposta che la premier Theresa May (foto) ha finalmente messo a punto per il futuro del Regno Unito nella Ue. Una proposta «soft» che prevede una zona di libero scambio per i prodotti agricoli e quelli manifatturieri, con regole comuni con l’Unione europea, ma anche la possibilità di stringere accordi commerciali con altri paesi, mantenendo il settore dei servizi al di fuori del mercato unico.

Difficile che Bruxelles conceda a Londra condizioni tanto favorevoli, anche se non si può non vedere di buon occhio la decisione della May di passare a più miti consigli e immaginare un’uscita dalla Ue meno drastica e dannosa per l’economia. Una linea che però non è stata per nulla apprezzata da alcuni esponenti del fronte euroscettico i quali, senza avere una proposta articolata da contrapporre a quella dei Chequers, la residenza di campagna in cui si è svolta la presentazione, hanno comunque deciso di boicottare quella della premier.

«Il sogno della Brexit è morto, affogato tra insicurezze inutili», ha spiegato Boris Johnson nella sua durissima lettera di dimissioni prima di ritirarsi in un silenzio che chissà quanto durerà (conoscendolo, pochissimo). La May lo ha sostituito con il fedelissimo Jeremy Hunt, ex ministro per la Salute, e ha messo l’euroscettico Dominic Raab al posto di Davis in modo da preservare quell’equilibrio che fa sì che un governo spaccato possa effettivamente rappresentare un Paese spaccato. In mancanza di alternative valide alla leadership funambolica della Lady di Gomma, che fino ad ora ha resistito a sette dimissioni di ministri e a una serie impressionante di sciagure politiche, per ora di sfide non ce ne dovrebbero essere, anche perché non esiste una maggioranza, né in Parlamento né tra i cittadini, a favore della «hard Brexit».

Anche gente come Michael Gove, ministro dell’Ambiente brexiter ma anche fine stratega, o Jacob Rees-Mogg, uno degli uomini-immagine dell’eurofobia, hanno espresso il loro sostegno alla May, mentre l’ex ministro degli Esteri e leader Tory William Hague ha detto che i «romantici» hanno ambizioni che non «sono di utilizzo pratico per il Paese» e li ha esortati a farsi da parte. Ma gli euroscettici non staranno con le mani in mano e, senza passare a soluzioni troppo drastiche in grado di aprire al laburista Jeremy Corbyn la strada di Downing Street, promettono di dare battaglia, o meglio «guerriglia»: nei ranghi dei Tories sono iniziate delle dimissioni di profilo più basso ma comunque dannose e continueranno, pare, fino a quando la May non cambierà idea sul tipo di Brexit da perseguire, visto che quella da lei delineata non rispetterebbe lo spirito del voto del 23 giugno 2016.

Purtroppo per gli euroscettici il sogno di continuare a navigare nelle vaghe acque di una Brexit indefinita va immancabilmente a sbattere sulle coste della verde Irlanda, isola dove da una parte c’è una Repubblica ben decisa a restare nella Ue e dall’altra un Ulster che fa parte del Regno Unito e che vuole che le vengano applicate esattamente le stesse regole che nel resto del paese. La maggioranza parlamentare della May dipende anche dal sostegno esterno degli unionisti nordirlandesi, motivo per cui la questione è importante a tutti i livelli. Se uscire dalla Ue significherà uscire anche dall’Unione doganale, considerando che l’equilibrio attuale regge sull’assenza di un confine fisico tra le due parti dell’isola, dove si metteranno le frontiere? Al dilemma la May ha cercato di dare una risposta immaginando una zona senza frontiere e con regole comuni solo per le merci materiali, altri negano che il problema stesso esista, anche se le tensioni continuano ad esistere e la pace sarebbe tutt’altro che scontata se venisse reintrodotta una barriera fisica.

Aspetti, questi, su cui un ministro degli Esteri dovrebbe avere una sensibilità particolare. Ma le dimissioni di Johnson hanno concluso un’esperienza non particolarmente positiva al Foreign Office. L’ex sindaco di Londra, che avrebbe dovuto usare il suo charme e i suoi contatti per vendere in tutto il mondo l’immagine di una Global Britain di successo, ha in realtà inanellato una serie di gaffes sia internazionali che, recentemente, nel Regno Unito, come quando ha risposto alle perplessità espresse dalle aziende sul rischio di un «no deal» al termine del negoziato sulla Brexit con un sintetico «f**k business», come se l’economia e il mantenimento dei posti di lavoro non fossero tra gli argomenti più importanti per il futuro del Paese.

Di questo si è accorto anche Corbyn che, da euroscettico di sinistra in chiave anticapitalista qual è, non può comunque fare a meno di tenere presente che i sindacati che lo sostengono e la sua stessa base, riunita nell’organizzazione Momentum, iniziano a pensare che ci voglia una posizione un po’ più netta da parte del partito sulla Brexit. La corbynmania ha resistito per tre anni, ma per sopravvivere ha bisogno di nuova energia, che può venire solo da una lotta per la questione politica più importante che il paese deve affrontare e che riguarda soprattutto i giovani, la stragrande maggioranza dei quali vota laburista.

L’Unione europea è kryptonite politica per i politici britannici e lo era anche prima del referendum. Se da una parte dà la volata ai populisti grazie al suo appeal identitario e appassionato, base ideale per discorsi e slogan efficacissimi (basti pensare a Nigel Farage, ex leader Ukip dalla dialettica affilata, e alla sua incredibile ascesa degli ultimi anni prima di sparire subito dopo il voto del 2016) ma letteralmente tossica quando occorre includerla in un processo decisionale e regolamentare che, dopo 40 anni, è indistricabile da quello nazionale.

Per questo Boris Johnson ha deciso di andarsene: per cercare di preservare quel capitale politico di uomo che non scende a compromessi e che sa interpretare la volontà della gente senza mischiarsi con i tecnocrati. La May, paradossalmente, ha una vita molto più facile ora che lui è andato via, anche se il presidente statunitense Donald Trump ha espresso nei confronti dell’ex ministro biondo parole affettuose e cinguettanti, alludendo alla possibilità di incontrarlo durante la sua visita di Londra. Uno sgarbo non da poco nei confronti dell’inquilina di Downing Street.

La Brexit si sta trasformando in una parabola da cui tutti gli euroscettici d’Europa possono trarre qualche insegnamento, a partire dal fatto che gli eccessi di retorica prima o poi portano comunque a dover prendere decisioni concrete e difficili. Per due anni il Regno Unito ha fatto finta che dopo il voto non fosse successo nulla e effettivamente non è cambiato molto, a parte il fatto che un’economia florida e crescente si vada contraendo e che gli investimenti che fioccavano nel Paese si siano arrestati.

La società è spaccata, i due principali partiti sono spaccati e l’idea di un secondo referendum sull’esito finale dei negoziati con Bruxelles – «People’s vote», il «Voto del popolo», dice la campagna – piace ai giovani e alla sinistra, ma terrorizza tutti coloro che pensano che si tratterebbe di un ennesimo salto nel buio. È possibile che a un certo punto, vista l’instabilità politica, ci siano delle elezioni, e questo forse rappresenterebbe la maniera più legittima per correggere una situazione surreale e potenzialmente catastrofica che però è resa meno vistosa dal fatto che tutta Europa sembra essere in uno stato simile, se non addirittura più grave.