Italia ferma, chiusa, a casa. E così la Francia, la Spagna, New York, l’America, l’Europa, il mondo. Mentre da fuori arriva solo il suono lancinante delle sirene, ci comportiamo da popolo adulto, non solo impaurito ma anche saggio, grazie anche agli eroi del personale medico e ospedaliero in prima linea a salvare gli ammalati di Covid-19.Stiamo compostamente tutti a casa, nonostante gli inglesi dicano che stare a casa al chiuso è peggio che stare sulle gradinate di uno stadio perché un essere umano positivo al massimo può infettare due o tre persone. Che ne sappiamo noi? Niente. Possiamo solo fidarci degli esperti. Dobbiamo fidarci. E poi sperare che il vaccino sia pronto prima che sia troppo tardi. Non ci resta che aderire a una dottrina epidemiologica qualsiasi come se si trattasse di una religione del nostro tempo, ciascuna con denominazioni, liturgie e sacramenti diversi e anche opposti: tipo #iorestoacasa italiano ed europeo e #megliodino inglese.
Non ho nessuna competenza, ma a naso mi convince di più il ragionamento di chi dice che la strada per contenere l’epidemia è l’isolamento, anche perché a poco a poco lo stanno facendo tutti, come dimostra l’improvviso cambio di linea di Emmanuel Macron che dopo due settimane di minimizzazione ha chiamato les citoyens aux armes e ha chiuso il Paese. Ma dall’altra parte ci sono ancora i tedeschi e gli inglesi, mentre Trump lo lasciamo stare perché è un cialtrone interessato soltanto alla soluzione più conveniente a garantirgli la rielezione. Angela Merkel e Boris Johnson suggeriscono di non bloccare del tutto i loro Paesi, non si capisce se perché sottovalutano la catastrofe imminente o perché sono cinici e non li vogliono piegare economicamente, oppure perché sono ancora convinti di poterla sfangare o, magari, perché hanno ragione sempre in nome della scienza, della statistica, della curva e di un qualche studio statistico.
E allora non ci resta che aspettare fatalmente queste fatidiche settimane di isolamento in cui arriverà prima il picco delle infezioni e poi si spera anche la luce in fondo al tunnel, mentre si approntano nuovi posti letto e si attivano nuovi macchinari per le terapie intensive. Ma il dubbio è che sia tutta un’illusione ottica, cioè che in realtà non vedremo mai questa luce in fondo al tunnel, perlomeno prima del vaccino che presumibilmente arriverà tra più di un anno. Il timore è che tutte le rassicurazioni collettive e tutti gli hashtag che ci scambiamo a una velocità superiore a quella della diffusione del corona a proposito del torneremo più forti di prima e anche più sociali, con la i, siano poco più che un miraggio.Due, tre, quattro settimane di lockdown sono faticose ma anche poche, ammesso che saranno soltanto due, tre o quattro.
Le faremo passare, consapevoli dei danni strutturali che causeranno. Ma ho come l’idea che il virus corona ci cambierà per sempre, economicamente e socialmente, come non è riuscito al terrorismo politico, allo shock petrolifero, all’islamismo radicale, alla crisi finanziaria. Credo che il corona segnerà il nostro tempo come la spagnola o la poliomielite o la guerra hanno temprato le generazioni precedenti. Difficilmente torneremo nei centri commerciali, in piazza, in aereo senza le precauzioni diventate vitali in questi giorni. Cambieremo le abitudini, i consumi e la produzione. La vita dopo il Covid, quando rinascerà, non sarà la solita vita di prima senza il virus. Sarà un’altra epoca. L’inizio di una nuova èra.Prima, però, c’è da superare l’emergenza. Sappiamo tutti che l’isolamento non finirà presto. Sappiamo perfettamente che non sappiamo quando ne usciremo. Non sappiamo nemmeno se una volta guariti ci si potrà riammalare né se con la bella stagione il virus andrà in vacanza, magari per tornare più farabutto in autunno.
Non sappiamo niente, insomma, su questa grande epidemia globale. Sappiamo però che, grazie ai progressi compiuti dalla scienza medica e dalla tecnologia, ci troviamo in una condizione migliore rispetto ad altre epoche storiche: in poche settimane abbiamo individuato il virus, la sua sequenza genetica, approntato il test per identificare i contagiati e arriveremo a una cura e a un vaccino in tempi più ristretti del solito, anche se purtroppo non istantanei. Nell’attesa, ci occupiamo di aumentare i posti nei reparti di terapia intensiva e la produzione di respiratori. Se le misure restrittive riusciranno ad appiattire la famigerata curva dei malati di Covid-19 saremo anche riusciti a salvare molti pazienti e il sistema sanitario. Certo c’è stata grande confusione, sono stati dati messaggi discordanti, certamente c’è ancora disorganizzazione, ma gli esperti di epidemie come l’Ebola dicono che di fronte al virus la cosa più importante è agire, anche reagire in modo sproporzionato, perché aspettare è letale.
Nelle epidemie la velocità prevale sulla perfezione, il meglio è amico del virus. La cosa che manca è un’altra, mentre i medici e i virologi e i protettori civili fanno il loro lavoro e noi stiamo a casa. Manca una risposta politica globale all’epidemia. Non c’è Churchill e non c’è Roosevelt, non c’è la Gran Bretagna e non c’è l’America. Non c’è uno sforzo nazionale e internazionale paragonabile a quello compiuto dai paesi liberi e alleati sotto l’attacco del nazifascismo. Cantare l’inno di Mameli alla finestra come fanno gli italiani e come presto faranno tutti gli altri con le proprie canzoni nazionali serve a riempire i pomeriggi azzurri e troppo lunghi, così come scambiarsi meme su Whatsapp serve a tenere alto il morale delle truppe, ma i governi dovrebbero concentrarsi su una grande opera di conversione temporanea delle manifatture nazionali in un complesso militare industriale d’emergenza contro il nemico corona per costruire i respiratori, per allestire gli ospedali, per produrre tutte le mascherine e i gel disinfettanti che servono agli operatori sanitari e ai cittadini.
I governi nazionali e gli organismi internazionali dovrebbero cambiare paradigma per vincere la sfida al virus e giustificare la loro esistenza: da un lato per rassicurare i cittadini che ci penseranno loro alle devastanti conseguenze economiche, non importa se serviranno mille o duemila o tremila miliardi, e dall’altro per convocare gli scienziati, i capi delle aziende farmaceutiche e dei principali laboratori di ricerca in un gabinetto di guerra per coordinare, condividere e accelerare la corsa alle terapie e al vaccino, mettendo a disposizione la forza e la credibilità dei paesi, dell’Europa e delle istituzioni per questa emergenza e per le eventuali prossime che non ci dovranno trovare di nuovo impreparati. Ma l’antidoto politico al virus, purtroppo, non c’è.