Se, in attesa di un vaccino efficace, non spunta fuori rapidamente un farmaco in grado di curare le forme gravi di polmoniti causate, in alcuni contagiati, dal virus Covid-19, l’America latina potrebbe essere nel prossimo futuro una delle aree del mondo a pagare il più caro prezzo al diffondersi dell’epidemia.I sistemi sanitari dei vari Paesi latinoamericani, pur diversi tra loro, sono terribilmente deboli, non in grado di reggere all’emergenza di una epidemia di grandi dimensioni. Anche quelle strutture pubbliche che negli anni Sessanta potevano essere considerate una felice eccezione nel continente e in parte lo sono ancora oggi, in Argentina ed Uruguay e quasi solo lì, sono diventate un colabrodo, devastate da decenni di tagli forsennati alle spese della sanità pubblica.
Altrove – in Cile, Brasile, Perù, Bolivia, Paraguay, Messico, Colombia, Ecuador, Paesi caraibici, tralasciando la tragica situazione venezuelana – gli ospedali statali, cioè quelli in prima linea a fronteggiare una eventuale pandemia, sono pochi, con pochi strumenti, personale carente, macchinari scarsi e spesso antiquati.Al momento il continente latinoamericano è una delle regioni meno colpite dal virus, considerando soprattutto l’alta densità di popolazione nelle grandi aree metropolitante, gonfiatesi di abitanti in ondate successive di migrazioni interne verso le grandi città.Ufficialmente il primo caso riconosciuto di contagio da Covid-19 è avvenuto il 26 febbraio in Brasile. Il primo decesso di una persona risultata positiva al tampone che rileva la presenza del virus (e non è detto che sia stato il virus ad ucciderla, come in molti altri casi) è stato il 7 marzo in Argentina.
È ragionevole credere che il brasiliano teoricamente «primo contagiato», il cosiddetto paziente 1 locale, sia verosimilmente il paziente 300 o 450. Molto probabilmente quando il virus si è rivelato con sintomi pesanti in lui al punto da indurlo a rivolgersi a un medico, già esistevano centinaia di persone in giro contagiate ed asintomatiche. Quindi il virus è presente: si diffonderà. Bisogna vedere come.Come potranno i malandatissimi ospedali peruviani o brasiliani far fronte a una improvvisa esigenza di ricoverare in terapia intensiva di grandi quantità di pazienti, con minime misure di protezione per gli altri degenti immunodepressi e per il personale sanitario, se non ci riesce nemmeno la sanità lombarda, una delle migliori d’Europa?
Diventeranno dei lazzaretti in pochi giorni, se va bene. Dei cimiteri, temono i meno ottimisti.In alcuni paesi latinoamericani – in Argentina, in Brasile, in Venezuela, in Messico, in Perù – il diritto alla cura è riconosciuto dalle singole Costituzioni come un diritto di tutti, ma è un diritto esistente solo sulla carta. Come fa il Venezuela a fronteggiare una pandemia di qualsiasi tipo e genere se non ha nemmeno gli antibiotici e se a Caracas (a Caracas, non in un villaggio sperduto dell’Amazzonia) si può morire oggi per una banalissima infezione a un dente?Se si prendono in considerazione i dati sugli investimenti in salute pubblica, poi, il quadro è disperante. La media nei paesi Ocse è del 6,5% del Pil speso in sanità pubblica.
In Messico è del 3%, in Venezuela dell’1,5%. Meno che nei Paesi del Medio Oriente, meno che nei Paesi del Maghreb in proporzione.Un rapporto di questi giorni dell’Istituto brasiliano di investigazione sulle politiche di salute pubblica, un centro specializzato in studi comparati, offre questo dato: considerando anche soltanto i costi del ricovero in Unità intensiva (dove è necessario sistemare i pazienti con serie insufficienze respiratorie) ogni punto percentuale di popolazione contagiata con seri sintomi richiederà almeno 250 milioni di dollari da spendere in ospedalizzazione. E le unità intensive – è questo il punto – sono poche, ridotte male o, semplicemente, non ci sono proprio.Prendiamo le proiezioni dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Secondo questi modelli una epidemia di medie dimensioni in Venezuela avrebbe bisogno, solo all’inizio, di almeno 1400 letti in reparti di cure intensive dove poter somministrare ossigeno ai pazienti.Non ce ne sono nemmeno 100 di posti letto in unità di cura intensiva in Venezuela oggi, considerando anche le cliniche private (i dati sono dell’Associzione venzuelana delle cliniche private). E quei letti sono già tutti occupati da pazienti con patologie gravi, infartuati, sopravvisuti ad ictus ecc. L’80% dei nuclei familiari vive in considerazioni di estrema precarietà alimentare. Il contagio, se ci sarà, in Venezuela come in tutti i Paesi latinoamericani, sarà rapidissimo nelle baraccopoli e nei suburbi attorno alle città dove milioni di persone vivono accatastate l’una sull’altra.
La curva di rapidità del contagio in America latina potrebbe essere drammaticamente sorprendente. Si può contare solo, e non è poco, sulla giovane età della popolazione media. È un continente con pessimi ospedali, con metropoli zeppe di gente che vive in condizioni di estrema povertà, ma non è un continente di vecchi. Si spera nella robustezza dei sistemi immunitari di ciascuno. Non è molto, ma è qualcosa.