Il termine «motore di ricerca» all’inizio, a metà degli anni 90, sembrava abbastanza strano. Eppure era una delle poche sicurezze che si possedevano, una volta imboccata l’autostrada della Grande Rete. Internet era ancora agli albori, lo spam e il phishing non erano ancora stati inventati. La connessione a Internet avveniva attraverso degli scatolini neri pieni di lucine che componevano un numero di telefono e poi scoppiettavano in una serie disordinata di scricchiolii. I siti web ufficiali erano ancora pochi, spesso istituzionali.
Per orientarsi ci voleva una qualche forma di elenco telefonico. I motori di ricerca erano ancora molto spartani, poco invasi dalla pubblicità. Tutti noi utilizzavamo Virgilio, l’unico che parlava italiano: in Svizzera c’era www.search.ch, in Ticino www.ticerco.ch… Insomma il mondo non era ancora così globalizzato e ognuno rimaneva nel suo piccolo. In realtà, di motori di ricerca non ce n’erano molti di più di questi e Google è arrivato in un secondo tempo. Tra i primi, i più conosciuti, indispensabile, c’era proprio Yahoo! (il punto esclamativo è parte del marchio). Il suo nome bizzarro lo rendeva simpatico; sembrava quasi il grido di entusiasmo di chi si lanciava in un’esperienza inebriante. In pochi ricordavano che il nome, quel motore, lo prendeva da un popolo inventato da Swift, nei suoi Viaggi di Gulliver. Gli Yahoo erano una razza di servi umanoidi, rozzi e primitivi, al servizio dei temibili cavalli Houyhnhnm.
Gli inventori del portale, Jerry Yang e David Filo, nel 1994 avevano scelto il nome togliendolo dall’acronimo «Yet Another Hierarchical Officious Oracle», cioè «ecco un altro oracolo gerarchico ufficioso». Come tutte le mitologie dell’era internettistica questa storia è troppo buffa per essere vera. Quel che è certo è che all’inizio il funzionamento dei motori di ricerca era abbastanza rudimentale. Il nome Yahoo! sembra invece che (tornando alle prerogative della razza swiftiana di cui sopra) descrivesse piuttosto il grado di rozzezza di quel primo sito. Semplice e scheletrico, vedi immagine qui a lato, il primo Yahoo! aveva però una sua grafica divertente, leggera e affidabile e proponeva una serie di link interessanti: era il vero viatico per quelle prime avventurose navigazioni.
Yahoo! aveva un altro grande vantaggio: era stato tra i primi siti web a metamorfosarsi in «portale», cioè in aggregatore di contenuti utili. Offriva indirizzi email gratuiti, spazio gratuito per caricare le proprie immagini digitali, informazioni di vario tipo come mappe delle città e quotazioni di borsa. Il suo servizio più curioso e ambizioso era, a nostro modesto avviso, «Answers», una pagina in cui chiunque poteva entrare e porre una domanda («Come si fa la torta di carote?»; «Perché la terra è rotonda?»; «Quanto sono alti gli Hobbit?»): nel giro di qualche tempo i viandanti curiosi potevano contare sulle risposte di navigatori più acculturati o esperti.
Con l’arrivo di Google, nel 1998, il declino di Yahoo! è stato lento e inevitabile. Si potrebbe dire che Google abbia battuto le stesse tracce del portale azzurro: ha proposto prodotti analoghi, ma ha inventato più servizi e li ha messi in opera meglio. In verità, la forza dell’azienda di Mountain View sta nell’efficacia dei suoi algoritmi di calcolo, cosa con cui Yahoo! non può competere. L’azienda ha tentato una mossa disperata, soffiando alla concorrenza proprio una delle sue più promettenti manager, Marissa Mayer. Quest’ultima ha puntato ancora di più sul prodotto «portale», trasformando di fatto Yahoo! in un sito di informazione molto agguerrito e colorato. Ha potenziato i servizi gratuiti alla clientela ma non è riuscita nella sua impresa di salvataggio, che mirava a tutelare gli interessi degli azionisti.
Oggi la notizia è funebre: Yahoo! non esiste più. Anzi presto cambierà nome e si chiamerà «Altaba». Credo che pochissimi di coloro che usano regolarmente il web si affidassero ancora ai servizi della «grande Y». E del resto le recenti notizie (una diffusa nello scorso settembre e un’altra in dicembre) erano tutt’altro che rassicuranti: negli scorsi anni centinaia di migliaia di dati personali legati agli indirizzi di posta elettronica erano stati rubati.
C’è chi è corso a cambiare la password del proprio account per evitare il peggio: col senno di poi, forse non ne valeva la pena.