Il suo nome scientifico è: Viscum album L. È una pianta davvero unica, circondata da un alone di magia e mistero. Rientra nella famiglia botanica delle Loranthaceae, composta da 1400 specie alcune delle quali hanno la particolarità di essere delle «emiparassite», il che significa che crescono ospiti di un’altra pianta dalla quale ricavano i sali minerali, mentre in modo autosufficiente effettuano la fotosintesi clorofilliana.
Su piante come ad esempio il pino silvestre, il pioppo, l’abete bianco o la quercia, il vischio sviluppa ciuffi tondeggianti che si conservano verdi tutto l’anno, con rami e piccole foglie opposte e ovali, fiorellini di colore giallo e frutti che sono inconfondibili bacche sferiche lisce e bianche dalla polpa gelatinosa, (da cui l’aggettivo «vischioso», che si usa appunto per indicare qualcosa di molto attaccaticcio e deriva dalla particolarità di queste bacche).
La strategia creatrice della natura è davvero stupefacente se osserviamo che anche la propagazione dei semi del vischio avviene per mezzo degli uccelli, soprattutto merli e tordi, i quali mangiano le sue bacche per poi espellerne i semi non digeriti quando si posano sui rami. Proprio su questi ultimi il seme depositato germinerà, dopo essere penetrato nella corteccia dove emetterà radici che si infiltreranno a loro volta nel legno vero e proprio.
Un profondo conoscitore delle piante e del paesaggio, Giorgio Lambrughi, ci ha suggerito come ottenere il vischio, che cresce nell’alto Ticino e in alcune zone della Riviera. Per averlo sperimentato lui stesso con una pianta di melo, spiega che basta mettere un seme nella piccola fessura della corteccia per l’appunto di un melo o di un pero e attendere di vederlo crescere.
Nell’antichità, i Celti adoravano il vischio – ma solo il «vischio quercino» – come «sperma» della sacra quercia. Credevano infatti che le sue bacche bianche fossero gocce del liquido seminale del dio del cielo. Per questo motivo, il vischio di quercia – che è uno degli alberi meno attaccati da questo parassita – era considerato sacro dai loro sacerdoti-medici, i Druidi, per i quali rappresentava l’anima immortale.
Di fatto si riteneva che il vischio fosse in grado di proteggere dalle ferite d’arma, e per questo era portato sulla pelle durante i combattimenti, e bruciato nei roghi dei guerrieri morti in battaglia. Tutti i popoli nordici chiamavano il vischio «colui che guarisce ogni male»; il suo culto era così radicato presso le popolazioni europee che riuscì a conservarsi anche molto tempo dopo l’avvento del cristianesimo.
Indossato, era ritenuto capace di far concepire le donne per la sua prerogativa di restare verde e fresco anche quando la pianta che lo ospita è «apparentemente» morta per l’inverno. I Druidi lo impiegavano contro l’epilessia e gli spasmi di ogni tipo, per trattare ferite purulente e di difficile guarigione e per le malattie cancerose.
La sua caratteristica di crescere «abbracciato» agli alberi era attribuita al timore della pianta di «toccare il suolo», ciò che secondo la credenza dell’epoca gli avrebbe fatto perdere i poteri. La «variante» venerata dai Druidi era quella colta nei giorni delle cerimonie purificatrici; con questo raccolto preparavano una bevanda detta «dell’immortalità»: amarissima e non priva di effetti tossici, che poteva essere consumata impunemente solo dagli iniziati ai misteri.
Nel corso delle loro cerimonie, il vischio che veniva staccato dalla pianta ospite, sottostava a un rito speciale, anche perché cresceva sulla parte alta della Quercia ed era difficile da raggiungere. In pratica, al sesto giorno dopo il solstizio d’inverno, durante la «notte madre» dei Celti e dopo una lunga serie di digiuni e abluzioni, scalzo e vestito di una tunica bianca, un Druido saliva sull’albero e usando esclusivamente un falcetto d’oro staccava e lasciava cadere i rametti del Vischio su un drappo bianco. Il rito terminava con il sacrificio di due buoi bianchi e con la distribuzione dei rami al popolo, che poteva così invocare la benevolenza degli dei.
Questa pianta è presente anche nell’arte e nella letteratura: James Frazer, antropologo e storico delle religioni scozzese, intitolò Il ramo d’oro (alludendo per l’appunto al vischio) un fondamentale studio antropologico su «magia e religione» pubblicato nel 1915. Allo stesso modo, il pittore inglese Joseph Mallord William Turner, nel 1820, intitolò The Golden Bough un quadro ispirato al canto sesto dell’Eneide.
Nonostante la grande considerazione di cui godeva nella medicina popolare, tuttavia, il vischio fu iscritto nella farmacopea non prima della seconda metà del XIX secolo, quando furono scoperti e sperimentati i suoi principi attivi. Un’importante conferma terapeutica si ebbe con una ricerca effettuata da un gruppo misto svizzero-germanico nel 1999, che dimostrò la sua azione nei riguardi del tumore al polmone, e nel 2000 uno studio sperimentale tedesco ha evidenziato gli effetti degli estratti di vischio somministrati dopo la chemioterapia.
Del vischio si usano le foglie e i rami giovani, raccolti durante tutto l’inverno a partire da settembre fino a marzo, essiccati al sole si conservano in scatole di cartone. Attenzione, le sue bacche sono invece velenose: a dosi tossiche possono provocare disturbi al sistema nervoso centrale, allucinazioni e paralisi. Il vischio ha proprietà vasodilatatrici, ipotensive, diuretiche, lassative e antiepilettiche; la tintura madre è impiegata nel trattamento dell’epilessia e dell’ipertensione arteriosa (nell’antichità era usato per la tosse spasmodica e i singhiozzi) perché è sedativa, antispasmodica e ipotensiva; l’estratto fluido veniva invece usato contro i geloni. La medicina antroposofica lo impiega come antitumorale. Come difesa e prevenzione dell’arteriosclerosi, una vecchia preziosa ricetta consiglia di macerare per una settimana 20 g di foglie di vischio in 3 dl di vino bianco secco di buona qualità; trascorso il periodo indicato, spremere, filtrare, imbottigliare e bere 1-2 bicchierini al giorno.
E poi c’è la tradizione, ben nota anche da noi. Un’antica usanza bene-augurante che impone agli innamorati di scambiarsi baci alla mezzanotte di San Silvestro sotto i suoi rami. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi e sono impossibili da conoscere, ma forse ci può correre in aiuto una leggenda dei Celti, che vede il vischio portatore di rigenerazione, del trionfo del bene sul male e della vita sulla morte. Così recita la leggenda: la Dea della mitologia nordica Freya, sposa di Odino, aveva due figli, come Caino e Abele uno, Balder, era buono e generoso, l’altro, Loki, cattivo e invidioso. Loki voleva uccidere il fratello. Venutane a conoscenza, Freya chiese a tutti gli esseri della terra, animali e vegetali, di proteggere Balder. Dimenticò però di rivolgersi anche al piccolo vischio, con i cui rami, infine, Loki fabbricò un dardo e uccise il fratello. Vedendo il corpo del figlio senza vita, la dea inizia a piangere, e magicamente le sue lacrime, diventate bacche bianche, appena toccano il corpo del figlio gli ridonano la vita. Folle di gioia, la madre corre ad abbracciare tutte le persone che passano sotto il vischio, alle quali concederà per sempre la sua protezione.