«Cosa fanno? Che succede?» Erano le domande che ponevano spesso i turisti americani in occasione dei Campionati mondiali di sci alpino del 1999 a Vail-Beaver Creek. Una volta ricevuta la risposta, se ne andavano verso le loro piste, con sci o snowboard sulle spalle. Immagino che anche nelle altre edizioni svolte in quei siti il clima fosse il medesimo. E pensare che queste scene si svolgevano in luoghi dalla solida tradizione sciistica.
Ci si chiede quindi come mai una federazione mondiale scelga di organizzare il suo appuntamento più importante in località in cui c’è scarso interesse per l’evento. Nel caso degli Stati Uniti la decisione della FIS si giustifica. Gli americani non saranno tifosi di sci come lo sono austriaci, svizzeri e francesi, ma sono senza dubbio degli amanti degli sport della neve. Quindi un evento come il Mondiale apre le porte a un interessantissimo mercato di potenziali consumatori. Inoltre gli organizzatori avevano predisposto delle tribune più piccole e meno capienti rispetto a quelle di Wengen, Kitzbühel, Garmisch e di altre stazioni europee. Rendendo così meno imbarazzante il compito di registi e cameraman, costretti a scovare scorci con tifoserie munite di bandiere, trombette e campanacci.
Da alcuni anni lo sport soffre di qatarite. In poco tempo, l’Emirato del vicino Oriente ha ospitato e ospiterà alcuni fra gli eventi sportivi di maggior richiamo. Dal 1993, nella capitale Doha, si svolge un torneo ATP di tennis, un World Tour 250 series, che per tre volte ha visto trionfare il nostro Roger Federer. Fin qui tutto bene. Nel 2014 e nel 2016, la capitale del Qatar ha ospitato la finale della Supercoppa italiana di calcio, sì proprio quella che ha celebrato la sua ultima edizione in Cina, suscitando reazioni e polemiche di carattere politico ed etico. Siete legittimati a porvi delle domande e a manifestare le vostre perplessità.
Dal 2002 l’Unione ciclistica internazionale ha lanciato il Giro del Qatar. Operazione legittima nell’ottica della mondializzazione del ciclismo. Ma da qui a concedere, pochi anni più tardi, l’organizzazione del Campionato del Mondo, ce ne passa. Eppure, nel settembre del 2016, fra le oasi dell’Emirato, va in scena la corsa regina. Se la aggiudica lo slovacco Peter Sagan, in volata su Mark Cavendish e Tom Boonen, dopo che la scrematura più importante era avvenuta nella prima metà della corsa durante la lunga ed estenuante traversata del deserto. Deserto è la parola chiave. Le splendide immagini, dal profilo paesaggistico, mostrano incantevoli palmizi, ridenti dune pettinate dal vento, molti cammelli con relativi cammellieri. Stop. Il pubblico, anche nella zona del traguardo, è scarsissimo. Avvilente, per chi si è sciroppato 257 km in sella, frustato dal vento e prosciugato dal sole.
Non credo che quell’evento abbia scatenato una tempesta di entusiasmo per il ciclismo nei ragazzini qatarioti. Si è trattato semplicemente di un’opportunità per promuovere nel mondo l’immagine di un piccolo e ricchissimo paese asiatico che viaggia a due velocità. Quella di chi ha moltissimo e quella di chi tira a campare. Passano tre anni e la scena si ripete. Luogo del «crimine» lo stadio Khalifa di Doha, teatro dei Campionati mondiali di atletica leggera. Con imperdonabile leggerezza la IAAF (International Association of Athletics Federations) ha attribuito all’emirato l’organizzazione del suo evento principe. Le temperature e il tasso di umidità elevatissime hanno imposto la disputa delle maratone a notte fonda, per evitare danni fisici ai partecipanti. Tuttavia, subito il primo giorno, nella maratona femminile, ci sono stati 28 abbandoni e 2 ricoveri in ospedale.
È vero, lo ammetto, ci sono situazioni più estreme. Penso, ad esempio, ad alcune Parigi-Roubaix corse con pioggia, freddo e vento sferzante. Sì, ma chi c’era può tranquillamente raccontare di aver partecipato a un evento epico, figlio di Pathos e Amore, con decine di migliaia di spettatori a bordo strada a condividere la sofferenza dei loro idoli. Lo stadio di Doha, in questi giorni? Semi-deserto. Mortificante.
Mi sorgono delle perplessità. Dal 21 novembre al 18 dicembre del 2022 il Qatar ospiterà la fase finale della Coppa del Mondo di calcio. Sì, avete capito bene le date. Del resto gli appassionati le avranno già interiorizzate e segnate in agenda. Non più fra giugno e luglio, ma in tardo autunno. Chissà perché? La FIFA è l’autentica corazzata dello sport, quindi saprà trarre profitto anche da questa manifestazione. Se alla sua guida ci fosse ancora Joseph Blatter, sarebbe capace di smuovere il mondo verso Doha. Nulla mi porta a dubitare che anche Gianni Infantino e il suo Team sapranno fare altrettanto. È quanto meno un auspicio.
Quello che viene considerato, a torto o a ragione, come il gioco più bello del mondo, non può prescindere dal colore, dal calore e dalla passione di chi riempie le tribune.