Il cronista ingenuo, i colleghi cattivi

Le paghe erano basse per i giornalisti negli anni Cinquanta del Novecento. Tra i documenti consultati per scrivere la storia del giornalismo nella Svizzera italiana ho trovato copie di estratti di carenza di beni allegate a lettere all’editore per chiedere un aumento di poche decine di franchi al mese. L’avvento dei contratti collettivi, a partire dai primi anni Settanta, pose termine a quell’indigenza, la radio e la televisione avevano già impostato i rapporti contrattuali in modo corretto. Finiva una stagione di povertà e di umiliazioni di cui è indicativo l’episodio che per la prima volta, dopo qualche esitazione, affido allo scritto.

L’uomo era di mezza età, semplice e buono. Redigeva verbali e citazioni per un ufficio governativo con sede a Lugano e si dilettava di giornalismo. Teneva i contatti con i cronisti delle testate cittadine (erano più di una, allora) e si faceva indicare da chi e quando e dove si invitassero i giornalisti a pranzo dopo le «conferenze stampa» che le aziende e i club organizzavano con una certa frequenza. Usava mettersi all’ultimo posto della tavola, non faceva mai domande, dopo aver dato un’occhiata intorno si qualificava come rappresentante di una testata che vedeva non essere rappresentata. Nel pomeriggio avrebbe portato dieci righe al giornale del quale si era spacciato come inviato.

Quel pomeriggio, al termine del pranzo che ci era stato offerto, si uscì insieme con lui in Piazza Dante. Due miei colleghi finsero sorpresa: «Ma guarda, che signori!», e tenevano in mano una banconota da cento franchi che avevano proditoriamente infilato tra la documentazione ricevuta. Quel buon uomo si stupì di non trovarli, i cento franchi, nella sua cartella. Perfidamente, gli altri due lo convinsero a tornare nel locale per chiederne ragione. All’uscita il poveraccio non trovò nessuno da coprire di insulti. Gli fu detto di prenderla sul ridere, così accadde, e di fatto non se ne parlò più. / EM


Una professione in crisi

Media – Il giornalismo è sempre meno attraente in Svizzera: da una parte diminuiscono gli iscritti alle scuole di giornalismo dall’altra molti professionisti scelgono di dedicarsi ai servizi di comunicazione pubblici o privati
/ 14.10.2019
di Enrico Morresi

La prima iniziativa di David Sieber – giornalista di lungo corso: 56 anni, trenta di professione, nuovo direttore del periodico «Schweizer Journalist» – è stata quella di dedicare molte pagine del periodico (4/2019) a chi lascia una redazione per mettersi al servizio della comunicazione di un’azienda, pubblica o privata. Scrive: «Mi arrabbiavo di brutto quando dei giovani giornalisti si dicevano disposti a passare alle pubbliche relazioni: mi pareva che si apprestassero a tradire la professione, non ne ho mai assunto uno che dicesse “per me è la stessa cosa”». Il periodico pubblica le confessioni di molti che il passo l’hanno fatto, in generale il loro giudizio è positivo. Anche «Edito», periodico delle organizzazioni professionali dei giornalisti, se ne occupa con un inserto: La tentation du changement. Ils étaient journalistes, ils sont attachés de presse (2/2019). Anche lì tutti gli intervistati rispondono positivamente alla domanda se, vista retrospettivamente, sia stata una buona decisione.

Alcuni casi li conosciamo anche in Ticino. Il più illustre è quello di Marco Cameroni, giornalista e presentatore della TSI fino al 1990, entrato alle dipendenze della Confederazione come portavoce di René Felber, dal 1999 al 2005 console generale svizzero a Milano e fino al 2007 capo del Centro di competenza per la politica estera culturale. Anche Saverio Snider, dal 1983 al 1989 direttore del «Popolo e Libertà», in seguito redattore culturale del «Corriere del Ticino», è stato dal 2008 al 2011 collaboratore personale del consigliere di Stato Luigi Pedrazzini, in seguito fino a quest’anno portavoce del Ministero pubblico del Canton Ticino. Snider aveva presieduto l’Associazione ticinese dei giornalisti (ATG) nel 1993. Come lui presidente dei giornalisti dal 1988 al 1992, Aldo Bertagni è passato dal giornalismo attivo svolto al «Giornale del Popolo» e poi alla «Regione» (dove era vicedirettore) alla funzione di responsabile della comunicazione del Dipartimento cantonale della Pubblica Educazione.

Non conosco i dati della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Lugano (ma l’istituto ha molti iscritti non-svizzeri e non-ticinesi, che logicamente avrebbero potuto voler lasciare la Svizzera dopo il master). Ho però quelli – pubblicati da «Schweizer Journalist» (4/2019) – dell’Alta Scuola di Scienze Applicate (ZHAW) di Winterthur e del Medien-Ausbildungs-Zentrum (MAZ) di Lucerna. Al MAZ, che forma solo giornalisti, si registra una diminuzione complessiva dei nuovi iscritti: da una media annua di 42 a 34. A Winterthur, che offre due curriculi paralleli – giornalismo/comunicazione – il rapporto è rimasto in pari fin verso il 2014, ora (2018) risulta che 68 studenti hanno scelto comunicazione e solo 29 giornalismo. Al «Tages-Anzeiger» di Zurigo i candidati che si annunciano per iniziare il biennio di formazione erano un centinaio ogni anno fino al 2012; l’ultimo anno sono stati 29. A Lucerna fino al 2013 il livello scolastico raggiunto da tre quarti degli iscritti era il certificato di maturità: ora i due terzi. Il responsabile dichiara: «L’immagine, il salario, le condizioni di lavoro, le prospettive di carriera sono peggiorate. Chi ha un titolo universitario in tasca ci pensa due volte prima di scegliere il giornalismo». E «solo pochi contano di starci fino alla pensione» (è un titolo del periodico di Sieber). Del cambiamento di prospettive terrà conto la nuova edizione dei corsi di giornalismo in Ticino. Ai moduli classici dedicati ai giornalisti in formazione verrà affiancato un nuovo curricolo che si concentrerà sulle professioni che offrono alternative al giornalismo tradizionale.

Rimane da sperare che, nella scelta, a decidere sia sempre la convinzione e non la costrizione (basterebbe domandare ai redattori del defunto «Giornale del Popolo» se sia stato per libera scelta che hanno cambiato mestiere...). Qualcuno potrebbe anche solo provare a tirare il fiato dopo aver fatto un’esperienza di molti anni in una redazione. Ma so di guardare alla scena che cambia anche con qualche pregiudizio. Nella cassetta delle lettere ci vengono recapitate ogni settimana decine di pubblicazioni para-giornalistiche, che cioè adottano le forme più efficaci per informare su cose, fatti, programmi, prospettive e vantaggi proposti da enti pubblici e privati. Il mio Comune, settemila abitanti, ha un addetto alle pubbliche relazioni a tempo pieno! Compagnie di assicurazione, casse malati, fondi di previdenza, ong come Amnesty International… enti che hanno da vendere idee e non solo e prodotti di consumo ci recapitano stampati di buona fattura tipografica, bene illustrati, scritti correttamente (non tutti, per la verità, in un Paese tri/quadrilingue come il nostro). Chi promuove tale comunicazione dovrebbe aver fatto bene i calcoli, vedere che l’esercizio, in definitiva, rende. Ma la raccolta della carta da riciclare non ha mai raggiunto un tale volume.

Metto le mani avanti e chiedo scusa se qualcuno si sente offeso. E so distinguere chi fa comunicazione per la Polizia e chi per vendere prodotti di bellezza. Ma di sicuro Thomas Jefferson pensava a qualcosa d’altro quando scriveva di preferire una società senza governo a una società senza giornali.