Una famiglia in transumanza

Alpe Stgegia – Genitori, tre figli, un aiutante salgono in quota con gli animali per tutta l’estate. L’antica storia della pastorizia diventa oggi più benefica che mai, almeno per chi ama la pace, il silenzio e una vita sana
/ 12.08.2019
di Sara Rossi Guidicelli

Fabio Taddei aveva 23 anni quando ha caricato l’Alpe Stgegia per la prima volta. Già da tempo aveva deciso che voleva fare il contadino e la sua futura moglie, Jacqueline detta Jacky, era entusiasta. Il nonno di Fabio aveva qualche capra e i giovani Fabio e Jacky hanno iniziato così, con quelle, nella loro azienda a Ponto Valentino; poi ne hanno comprate altre, alcuni maiali, galline, conigli, cavalli. Per acquistare la stalla, i macchinari e tutto ciò che occorre ci vuole investimento, convinzione, lavoro. Per loro non serviva spirito di sacrificio: avevano la forza di chi sa ciò che vuole.

Quando hanno sentito che il Patriziato di Dongio aspettava qualcuno che affittasse l’Alpe Stgegia (a mezz’ora da Ponto Valentino, subito dopo il Passo del Lucomagno) per ristrutturarla, si sono fatti avanti insieme a due altri agricoltori, Renza e Elmo Frusetta. E qui è necessaria una curiosa parentesi storica, perché quel pascolo non è in Ticino, bensì nei Grigioni, anche se appartiene al Patriziato di Dongio.

Nel 1755, il Convento di Disentis aveva venduto l’Alpe Stgegia all’allora Comune di Dongio, che aveva pochi pascoli a sua disposizione. Il contratto era «per sempre» e prevedeva in cambio la somma di «fiorini trecento di Reno al valore di Disentis». Ogni anno, a San Bartolomeo, il Comune di Dongio avrebbe anche dovuto pagare un «fitto perpetuo» altrimenti il Monastero si riservava il diritto di «manomettere e aggredire il bestiame del suddetto Comune o di coloro che caricavano l’alpe». Nell’antico documento si indicano anche le responsabilità: il compratore doveva occuparsi della manutenzione della strada che scende dal Passo del Lucomagno nei pressi della sua parcella e di tenerne aperto il transito in tempo di neve; se però per disgrazia «vi accadesse uno scomponimento notale precedente di grand’acqua e rottura di montagna», in tal caso allora sarebbe compito del Monastero di Disentis riparare i danni.

Nel 2002, dunque, dopo i lavori di restauro delle cascine, mi raccontano i Taddei che sono saliti portandosi la loro primogenita, Melanie, che aveva tre mesi, gli animali e gli strumenti di lavoro. «I nostri tre figli hanno imparato a mungere le capre, a chiamarle, ad aiutarci in tutte le incombenze quotidiane. Quando erano bebè li mettevamo vicino alla caldaia, poi da più grandi giravano senza pericolo e partecipavano a ogni attività della vita sull’Alpe; sono proprio cresciuti qui». Quando sono a Stgegia, gestiscono una decina di mucche e 240 capre, e Jacqueline fa la casara, la mamma e la casalinga, mentre degli animali si occupa il marito. Con il latte dei loro animali, Jacky prepara formaggelle di mucca, capra e miste, fa i büscion, gli yogurt, la ricotta, la robiola e anche un po’ di formaggio da stagionare. Le pareti dei suoi caseifici, quello in valle e quello in montagna, sono tappezzati di certificati che premiano i suoi prodotti.A raccontare con fierezza del lavoro dell’Alpe ci sono anche Melanie (che ha già compiuto i 18 anni e lavora), Eveline (14) e Kevin (12). Melanie sta facendo un apprendistato di vendita, ma appena può sale all’Alpe: «C’è così tanta pace qui», spiega. «Quando finisco di lavorare non vedo l’ora di raggiungere la mia famiglia, allora mi faccio portare su dal nonno. Vorrei fare esperienza ancora un paio di anni in negozio e poi dedicarmi all’azienda dei miei genitori». Anche Eveline sa già che vuole lavorare con gli animali anche da grande. Kevin non pensa al futuro: al momento dell’intervista infatti stava costruendo una base di legno per fare il bancone del brunch per il primo d’agosto, insieme a suo papà e l’aiutante Carlo. Ogni anno accolgono circa trecento persone con polenta, patate, tutti i prodotti dell’Alpe e tanta musica dal vivo.

«In piano è più faticoso perché bisogna fare anche il fieno», mi spiegano Fabio e Jacky. «Qui è tutto più vicino e spazioso; abbiamo due caldaie così si può casare di più. Eppure, benché il lavoro non sia di meno all’Alpe rispetto a quando si è a casa, sembra più facile perché è meno dispersivo. La sveglia è sempre alle cinque, gli animali da mungere e a cui dare da mangiare sono gli stessi. Qui oltretutto a volte le capre si inerpicano lontano e bisogna andare a prenderle... però è il nostro momento preferito dell’anno. I figli non vanno a scuola e quindi c’è un pensiero in meno. Sanno sempre cosa fare, perciò stanno meglio, non ciondolano. Un po’ ci aiutano, un po’ vanno al fiume, un po’ si divertono qui intorno, in modo sano».

Il paesaggio dell’Alpe Stgegia è particolare: non è soltanto il solito pascolo bucolico, come un palcoscenico verde in mezzo a un’arena di montagne. C’è qualcosa in più, qualcosa che bisogna imparare ad apprezzare: proprio lì, a duecento metri dalle cascine affittate dai Taddei, c’è l’imponente diga ad arco di Santa Maria, alta 117 metri e lunga 560 metri, costruita nel 1968 per creare un lago artificiale sfruttato da un’azienda elettrica. L’Alpe di Fabio e Jacky è ciò che resta del territorio acquistato nel 1755 da Dongio: il resto sta sotto al lago, dietro allo sbarramento.

«La gente ci chiede: ma non vi sentite isolati lassù per tre mesi? Non sanno che vediamo molte più persone qui che a casa nostra: chi passa si ferma a chiacchierare, mangia uno yogurt, organizza una merenda. L’aria è fina, il paesaggio ci dà una pace che da fuori entra dentro e ci sentiamo rilassati, anche se trottiamo tutto il tempo e la sera alle nove e mezza crolliamo dal sonno. È un mestiere che non dà vacanze, ma dà la soddisfazione della libertà e del formaggio buono. E qui all’Alpe, il formaggio viene migliore, perciò noi, quassù, ci sentiamo ancora di più al nostro posto».