Una città a metà

Reportage – Visita a Mesoraca, il paese da cui provengono (quasi) tutti i calabresi in Ticino. Diviso tra chi è rimasto e chi se ne è andato per sempre
/ 01.10.2018
di Jonas Marti, testo e foto

Li vedi ovunque salendo la strada polverosa. Sono accanto agli eucalipti solitari, affastellati sulla collina, sospesi sui dirupi. Interi palazzi incompiuti, scheletri di calcestruzzo e nudi mattoni rossi: ai piani inferiori ondeggiano le ghirlande di panni stesi ad asciugare, sopra ci sono gli appartamenti vuoti, senza vetri alle finestre, vuoti involucri che aspettano di essere riempiti. Sono le case costruite dai primi emigrati di Mesoraca con i primi guadagni della diaspora. Avevano lasciato interi piani incompiuti per i figli, con la certezza che un giorno sarebbero tornati a finirli. Non sono mai tornati. Sono rimasti su al Nord. A Lavena Ponte Tresa, comune gemellato; in Svizzera, tra Lugano e Bellinzona. Donne, uomini e bambini. Che oggi costituiscono una vera e propria seconda Mesoraca: in Calabria ne vivono 6500. In Ticino sono 5mila.

Mesoraca, arroccata sulle boscose pendici della Sila tra due ripide gole che scendono verso il mare, è una città spezzata a metà tra chi se ne è andato e chi è rimasto. Sono passati decenni e generazioni, ma basta indugiare nel negozio di alimentari della piazza, sotto i rosari di peperoncini, e pronunciare la parola «Ticino» per scorgere negli occhi un barlume di nostalgia e di fierezza; il dolore degli addii, l’orgoglio del riscatto. «Pensi che cosa poteva significare per un padre di famiglia andarsene e lasciare tutto», dice Giuseppe Stirparo, assessore di Mesoraca, unico della famiglia rimasto in Calabria, tre fratelli tra Lamone, Cadempino e Ponte Tresa, i genitori vissuti quasi trent’anni a Bioggio. «Andare verso l’ignoto, in un altro paese, quando le compagnie aeree low cost non c’erano ancora, quando non c’era nemmeno ancora l’autostrada, e dalla Calabria alla Svizzera una lettera ci poteva mettere anche quindici giorni ad andare e tornare».

 Erano gli anni 50, la gente fuggiva da una terra che non aveva più pane da dare ai suoi figli. Sull’onda del passaparola si tentava la fortuna altrove, al Nord. Gli emigrati dei villaggi vicini sono rimasti in Italia. Ma i mesorachesi no. Loro hanno osato andare più in là, oltre il confine, in Svizzera, dove a Chiasso «ti facevano la visita sanitaria prima di entrare» ma a Lugano «ti aspettavano in stazione e appena scendevi dal treno ti assumevano». 

Una grande opportunità potere lavorare nella Svizzera italiana: essere all’estero, ma continuare a parlare italiano. I primi mesorachesi, eredi degli antichi pastori e boscaioli della Sila, cominciarono nel settore agricolo. Poi esplose il boom economico e diventarono muratori. Storie difficili, fatte di lontananza, di notti trascorse a dormire in baracche di trenta persone, di schiene piegate e camicie madide. Poi infine il riscatto sociale. Offuscato però da alcuni fatti di cronaca nera e giudiziaria che hanno macchiato il nome di Mesoraca e hanno contribuito a creare in Ticino una cattiva fama difficile da sfatare.

Ma negli spogli corridoi del Comune – la targhetta all’entrata «qui la ’ndrangheta non entra» e la foto di Falcone e Borsellino appesa a una parete – non ci stanno a essere bollati come criminali. «Abbiamo dato tanto alla Svizzera», attacca appena ci vede il popolarissimo sindaco Armando Foresta. «Nel tempo siamo riusciti a diventare medici, professori, addirittura politici. Se il vostro paese è cresciuto, è anche grazie alla nostra collaborazione».

È una storia antica quella di Mesoraca, lo si vede bene scendendo gli stretti vicoli pietrosi del centro storico. Mesoraca ha avuto un papa, San Zosimo. Mesoraca ha avuto la consueta sfilata di dominatori mediterranei: Greci, Romani, Bizantini, Saraceni, Spagnoli. E quasi sempre, come tutta la Calabria, feudalesimo e latifondo. Per molti e troppi secoli ha subito il potere dei signorotti locali. Tanta terra per loro, quasi niente per gli altri. Una miseria, origine dell’odierno squilibrio. L’antica e prepotente ricchezza di questi grandi proprietari terrieri è ancora scolpita negli stemmi dei palazzi nobiliari, aleggia nelle oscure corti che si intravvedono sbirciando dai portoni di legno. 

Mesoraca fu una città importante. Almeno abbastanza da potersi permettere di chiamare scultori per abbellire le sue chiese. Tra di loro – premonitore gioco del destino – anche un certo Antonello Gaggini: suo padre, Domenico, era partito da Bissone per mettersi al servizio della raffinata corte aragonese di Palermo. Una migrazione al contrario, cinquecento anni fa, quando erano i ticinesi a mettersi il sacco in spalla ed emigrare. La sua Madonna delle Grazie, scolpita nel marmo bianco di Carrara, dal 1504 domina dall’altare il Santuario del SS. Ecce Homo.  Il complesso religioso è custodito con silenziosa dedizione da Fra Giuseppe, un piccolo francescano vestito col saio che ci accoglie all’ombra del chiostro. «Gli emigrati attingono alle loro radici attraverso la devozione al santissimo Ecce Homo. Per sposarsi molti vengono proprio qui. Quest’anno abbiamo celebrato una ventina di matrimoni, da Lugano, Bellinzona, Ponte Tresa. Con l’autorizzazione della Curia di Lugano». E poi, ogni sette anni, la grande festa, con la statua lignea di Cristo in processione, quando «c’è proprio la folla di emigrati che rientrano». Dal terrazzo davanti alla bianca facciata della chiesa in certe giornate capita di vedere anche il mare. Si vede tutta la pianura del Marchesato, con i nudi campi di grano color ocra sotto il sole di fine estate, e i declivi puntellati di ulivi.  Come migliaia di emigrati ogni anno, anche quest’estate è tornato in paese Maurizio Cortese. A Bellinzona da una vita, da venti anni è presidente dell’Associazione Mesorachesi in Ticino, che promuove la cultura e la gastronomia calabresi, e fa da ponte tra gli emigrati e le istituzioni di Mesoraca. Sorseggiando latte di mandorla ci presenta entusiasta i molti eventi che sta organizzando in Svizzera, dalla sagra del merluzzo che si è tenuta il 15 settembre a Sementina, alla rappresentazione teatrale in dialetto mesorachese prevista per dicembre a Manno. «Siamo una comunità molto unita. Dal Ticino possiamo addirittura dire la nostra sui lavori pubblici che si eseguono a Mesoraca. C’è un costante e strettissimo rapporto tra noi, residenti in Svizzera, e chi è rimasto qui».  Una grande famiglia allargata, dalle Alpi allo Ionio. Gli autobus fanno su e giù, dai veicoli targati Ticino arrivano colpi di clacson per salutare un amico. Gli emigrati non dimenticano Mesoraca. E Mesoraca non dimentica i suoi esuli. 

Al margine del paese, accanto a un cartello su cui campeggia la scritta rossa «si vende vino, si fanno zanzariere su misura», c’è il frantoio di Vincenzo Castagnino. Anche sua sorella abita in Svizzera. Ogni anno una paletta di bidoni pieni di olio d’oliva attraversa l’Italia e arriva al confine di Ponte Tresa, dove viene consegnata agli emigrati mesorachesi. L’olio d’oliva, insieme al tipico pane cotto nel forno a legna e alle castagne abbondantissime, è più di una risorsa: è una ragione d’orgoglio, sapore della propria terra lontana.

Ma a Mesoraca tutti lo sanno: i palazzi vuoti non si riempiranno mai più. Il paese sta invecchiando anno dopo anno, spogliato di intere generazioni. «Continuiamo a diminuire» lamenta l’assessore Giuseppe Stirparo. Negli anni 80 i residenti erano quasi diecimila. Oggi poco più della metà. E le nuove generazioni, nonostante l’enorme sforzo degli amministratori locali, continuano a fuggire portandosi dietro i loro sogni. E guardando sempre e ancora alla Svizzera. «Il fenomeno dell’emigrazione è la piaga di tutto il Sud: continuiamo a perdere la risorsa più importante, i giovani, il futuro. Ma non ci rassegniamo, non ci rassegneremo mai. Giorno dopo giorno continuiamo a combattere, affinché nessuno in futuro debba mai più lasciare la propria terra».